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•Perchè Gettysburg
Testo di Stefano Bianchi

Copyright riservato. Ogni diritto riservato. Pubblicato il 01/02/2014

Premessa
La recente pubblicazione del libro postumo di Raimondo Luraghi, sembra aver riacceso l’interesse degli appassionati italiani sulle ragioni della disfatta della Confederazione(1). Ovvero, forse più correttamente secondo altri, della vittoria dell’Unione. Un’alternativa verbatim solo in apparenza banale, ma in realtà assai più densa di problemi di quel che paia di primo acchito. Furono infatti le errate decisioni del comando sudista a provocare la sconfitta della Confederazione o non fu, piuttosto, merito della genialità dei vertici militari unionisti se un nemico abile e determinato come quello rappresentato dai meridionali, fu sconfitto? Dove finirono i pregi dell’uno e iniziarono i demeriti dell’altro? Sono questioni cui pare molto difficile, se non impossibile rispondere, ma che tuttavia restano cruciali e che da decenni sono oggetto di aspre dispute nella storiografia. Di certo vi è come una delle svolte della guerra sia stata spesso individuata nel luglio del 1863, cui lo stesso illustre storico italiano, nel suo volume, dedica una assai breve disanima(2). Nel giro di pochi giorni, ad Est l’esercito confederato guidato dal generale Lee subì una cocente battuta d’arresto a Gettysburg, in Pennsylvania, mentre centinaia di chilometri più a Occidente, la roccaforte di Vicksburg, sul fiume Mississippi, dovette arrendersi al generale unionista Grant: e con essa l’intera guarnigione. Il conto totale per i confederati sui due fronti tra morti, feriti e prigionieri, fu di oltre 50.000 perdite, senza contare il prezioso materiale bellico catturato dal nemico. Indagare come e perché la Confederazione giunse a decisioni che forse ne segnarono la sorte e quali diverse opzioni essa possedesse, rappresenta lo scopo di questo breve scritto.

INDICE
1.La grande strategia confederata fino alla primavera del 1863: il pensiero di Jefferson Davis.
2.Quattro alternative militari: Beauregard, Bragg, Johnston e Lee.
3.La primavera del 1863 e la proposta Seddon.
4.Il blocco occidentale si muove: i piani per un’offensiva nel Tennessee.
5.L'offensiva nel Nord: il disegno strategico di Lee.
APPENDICE 1
APPENDICE 2

1.La grande strategia confederata fino alla primavera del 1863: il pensiero di Jefferson Davis.
Prima di esaminare nel dettaglio le scelte operate e le eventuali alternative che potevano essere adottate dal Governo confederato nella primavera-estate del 1863, occorre esaminare per grandi linee quale ”grande strategia” avesse adottato il Sud sino ad allora. La Costituzione Confederata, del tutto simile, sotto questo profilo, a quella degli Stati Uniti d’America (che ricalcava largamente, con alcune differenze), stabiliva che il Presidente della Confederazione rivestisse il ruolo di Comandante in Capo delle forze navali e terrestri: pertanto il 28 febbraio 1861 veniva promulgata la legge che autorizzava Davis “ad assumere il controllo di tutte le operazioni militari in ogni Stato”(3). In sostanza, a Jefferson Davis veniva affidata la strategia nazionale della guerra: del resto, la sua scelta come Presidente era maturata proprio perché lui, solo, nel Meridione, poteva vantare un’illustre e consolidata esperienza in materia militare. O, quantomeno, così si credeva allo scoppio delle ostilità: in effetti, non v’era chi nel Sud non facesse affidamento sul cadetto di West Point, sull’eroe di Buena Vista, sulle sue eccezionali doti mostrate come Segretario alla Guerra, per battere l’invasore nordista: “con lui, la vittoria dovrebbe essere certa, e la possibilità una certezza” titolava il quotidiano sudista Richmond Examiner; un “autentico figlio di Marte” chiosava un altro, il Cleveland Plain Dealer. “Una delle poche, vere, autentiche menti giganti che adornano le pagine della storia” incensava un altro ancora, il Bangor Democrat (4).
A differenza, però, della tradizione Federale (integralmente recepita nell’Unione, che mantenne tale struttura inalterata), la Confederazione, per scelta espressa di Jefferson Davis, non ebbe un Generale in Capo, cui affidare la conduzione della strategia militare, che dunque restava nelle sue mani interamente, oltre che, in teoria, in quelle del Segretario alla Guerra e dell’Aiutante Generale che avrebbero dovuto affiancarlo, aiutarlo e consigliarlo nelle scelte (5). Tale schema, secondo Davis, avrebbe garantito lui, per un lato, una certa libertà di azione nelle decisioni, avendo egli un’altissima opinione delle proprie capacità: ma, per un altro, egli contava anche sull’ausilio prezioso di validi consiglieri. Sennonché, con il tempo, il Presidente confederato si accorse che le varie figure che si alternarono come segretari alla Guerra erano degli incapaci, oppure quelli che Davis considerava, di fatto, come petulanti collaboratori (6); quanto all’Aiutante Generale, nominato nella figura dell’ormai anziano Samuel Cooper, non c’era di che farvi molto più conto, essendosi rivelato un burocrate e nulla più. Solo assai tardi, vale a dire nel febbraio 1865, la carica di Generale in Capo delle forze armate fu assunta dal generale Robert Edward Lee. Sicché, in sostanza ultima si può bene dire che l’intera grande strategia nazionale e militare della Confederazione fu decisa da Davis.
Peraltro, se su di un piano teorico la distinzione tra il livello strategico nazionale, militare e operazionale può essere assai chiara, nella prassi essa risultava molto più sottile e sfumata: e proprio gli esempi della storia americana più recente, mostravano come accadesse sovente che un presidente si occupasse anche della conduzione diretta delle operazioni, come nel caso di George Washington nel corso della Guerra di Indipendenza, o come avvenne, più limitatamente, all’epoca della Presidenza Polk, il quale modificò ad esempio i piani per lo sbarco dell’esercito federale sul suolo messicano, venendo a contrasto con l’allora Generale in Capo Winfield Scott (7). Lo stesso presidente federale Lincoln, più di una volta, senza dettare esplicitamente gli ordini circa la condotta in un teatro o nell’altro, consigliava o suggeriva, con estremo tatto, ma fermezza, ai suoi generali, quali obiettivi operazionali dovessero perseguire di volta in volta, come mostra la corrispondenza diretta al Generale George B. McClellan nella primavera del 1862 o al Generale Joseph Hooker un anno più tardi, entrambi a capo dell’Armata del Potomac.
Per quanto aspramente criticata, la decisione di delegare la strategia nazionale e militare interamente nelle mani di Jefferson Davis, di per sé stessa non può essere considerata, a nostro avviso e a priori, un errore. Proprio l’esempio dall’Unione, la quale nel corso del conflitto ebbe a cambiare ben tre Comandanti in Capo (Winfield Scott, George B. McClellan e Henry Halleck) prima di affidare la conduzione della guerra con successo a Ulysses S. Grant nel 1864, dimostrava che, l’esistenza della carica e la separazione dei ruoli, soli, non offrivano garanzia di successo; del resto, a parte l’ormai anziano Scott, autore del discusso piano “Anaconda”, né McClellan, impegnato alla guida dell’Armata del Potomac e quindi incapace di occuparsi di altri teatri operazionali, che riteneva del tutto marginali, credendo, peraltro non del tutto a torto, che la conquista di Richmond avrebbe di fatto segnato la fine del conflitto, né Halleck, il quale era un ottimo amministratore, ma era poco brillante come stratega e quindi di fatto fu relegato - e si relegò  - in un ruolo secondario di modesto burocrate, mostrarono mai alcuna particolare abilità o voglia di elaborare una strategia militare generale per il Nord (8).
Occorre poi sottolineare che se Davis riuniva in sé, di fatto, le due cariche, egli non pretese mai di elaborare  direttamente la condotta operazionale su di un teatro. Ben conscio dell’impossibilità di dirigere a priori da Richmond il movimento delle truppe nei lontani teatri dell’ovest senza possedere accurate informazioni circa terreno e disposizione del nemico e consapevole dell’assurdità di avere tali dati in “tempo reale” (attese anche le difficoltà dell’epoca nella trasmissione di notizie), Davis garantì sempre ai suoi comandanti il “potere discrezionale che è essenziale per il successo delle operazioni sul campo”, come scrisse egli stesso al generale J.E. Johnston, rassicurandolo (9). Per sé stesso, egli si riservava il ruolo di proporre “gli scopi e le vedute generali” come supporto e guida per i suoi comandanti (10). Va da sé che quanto più i suoi generali si rivelavano abili, tanto più la sua figura si mostrasse con loro nella penombra: Davis non era alla ricerca di semplici collaboratori a cui impartire ordini, ma di uomini che, grazie alle loro qualità, garantissero la vittoria delle armate sudiste. Il suo atteggiamento sembrava più animato dal bisogno di affiancare all’autorità militare operazionale il proprio sostegno, che da una reale volontà dirigista. In realtà, una volta assicurate al generale le linee guida generali, costui era libero di agire e tradurre sul campo quelle direttive generali che forniva Davis, come meglio credesse; ad una precisa condizione, però: che non si tenesse il Presidente all’oscuro delle decisioni adottate. Era, questo, un principio per lui irrinunciabile: e non tanto perché egli fosse geloso delle sue personali prerogative, a nostro modo di vedere, ma perché era intimamente convinto della superiorità del potere civile e politico su quello militare, come ben ebbe modo di ricordare al generale Beauregard nel 1861 (11). Una visione perfettamente aderente al dettato costituzionale americano che era stata pensato (e impresso sulla carta) avendo in mente l’esperienza rivoluzionaria e la figura di Washington, ma che si sposava pure con la teoria clausewitziana sulla guerra come continuazione della politica con altri mezzi. La strategia nazionale della Confederazione sembrava assai semplice, nella sostanza. Come sottolineò lo stesso Davis al Congresso provvisorio Confederato nell’aprile del 1861,“noi non perseguiamo alcuna conquista, nessun ingrandimento, nessuna concessione di alcuna specie dagli Stati con i quali eravamo remotamente confederati. Tutto ciò che chiediamo è di essere lasciati soli” (12). Tale precisazione, certo di carattere propagandistico, forse più rivolta all’Unione e soprattutto ai governi esteri, piuttosto che ai membri del Congresso, nella sua semplicità, sembrava però delimitare con estrema precisione lo scopo ultimo della grande strategia meridionale: se presa alla lettera essa indicava una condotta, a prima vista, puramente difensiva, addossando direttamente all’Unione la parte dell’aggressore e alla Confederazione quella dell’aggredito. Tutto ciò che doveva fare la neonata nazione era di difendere il proprio territorio, dunque. Ma come dovesse tradursi tutto ciò sul piano strategico militare era tutt’altro discorso. Al riguardo, quali idee animavano il pensiero di Jefferson Davis?
L’inquadramento della sua visione ha provocato notevoli contrasti tra gli studiosi. Qualcuno, senza dubbio del tutto erroneamente, ha presentato il disegno complessivo di Davis come orientato all’assunzione dell’iniziativa ogni qualvolta ciò fosse possibile, sottolineandone il carattere estremamente aggressivo, dominato quasi ossessivamente dalla ricerca dell’offensiva (13). Altri hanno indicato, più realisticamente, in una condotta “completamente difensiva, orientata alla sopravvivenza [della Confederazione]” il suo reale intento: assumendo una posizione quasi passiva e fiaccando la volontà del nemico, ragionava il presidente confederato, si sarebbe arrivati alla vittoria (14). Ancora, la strategia prescelta da Davis è stata da altri definita, forse in modo maggiormente corretto, come “difensivo - offensiva”: tentare di conservare integro quanto più possibile del territorio sudista, cercando, quando se ne presentasse l’occasione, di colpire l’avversario, per mezzo di offensive circoscritte, ottenendo successi di carattere parziale su obiettivi limitati (15). In apparente contrasto, infine, si è detto che il presidente confederato si rivelò fautore di una difesa offensiva (“offensivo - difensiva”): per mezzo di una veloci manovre e sfruttando le linee interne per concentrare le forze, Davis si sarebbe ripromesso di attaccare il nemico là dove esso apparisse e ove le circostanze si mostrassero a questo più sfavorevoli; ma l’enfasi, al di là della terminologia, ancora una volta, sembra essere posta sull’aspetto difensivo (16). Probabilmente vi è molto di vero in quest’ultima asserzione, anche se come si può notare, sembra esservi ben poco accordo tra gli interpreti e studiosi. Ma, forse, è semplicemente errato cercare di dare un’unica, complessiva, risposta e il tentativo di ingabbiare e classificare in rigidi schemi un pensiero e una condotta che si sarebbero dipanati e sviluppati lungo un arco cronologico di quattro anni, manca in parte di prospettiva temporale e in parte di una visione d’insieme, non tenendo conto delle evoluzioni dettate non solo dal mutare degli eventi, ma pure dalla condotta dell’avversario.   Se Jefferson Davis non ha mai definito con precisione le sue idee al riguardo, il pensiero del Presidente confederato, può però essere ricostruito a posteriori sulla scorta del suo operato e della ricca corrispondenza privata oltreché della massa di documenti ufficiali (missive, ordini, richieste) inviate ai comandanti o collaboratori (17).
Orbene, un’analisi spassionata della documentazione porta a concludere che le idee di Davis a riguardo, non conobbero un andamento del tutto lineare, ancorato rigidamente intorno ad un singolo concetto, ma ebbero un’evoluzione o meglio ancora, una serie di mutamenti. A riprova che l’uomo, pur tra molti tentativi, sbagli e difficoltà sapeva adattarsi alle nuove esigenze che emergevano: non sempre felicemente, questo sì, ma il quadro che si compone è certo più sfumato e frastagliato di quanto si è voluto far credere. Volendo riassumere per sommi capi, è perciò, a nostro avviso, possibile isolare in alcune linee guida e scansioni temporali l’intero periodo bellico. Una prima fase, che possiamo, grosso modo, far concludere con l’autunno 1861, sembra caratterizzarsi per una mancanza sostanziale di direttive precise generali:  un’ambivalenza tra iniziative offensive e difesa territoriale, dunque, che appare più la conseguenza di scelte locali e della lotta per gli stati di confine, che il frutto di decisioni da parte del Presidente. Ed è significativo al proposito che, attendendo probabilmente un’unica importante e decisa iniziativa unionista concentrata in un singolo punto, nell’illusione di una guerra di proporzioni limitate e dai tempi brevi, Davis non abbia elaborato alcun preciso piano in questo periodo iniziale. Assistiamo perciò ad un’alternanza tra piccole offensive (Missouri, Kentucky, New Mexico) e controffensive in Virginia (Manassas), mentre vengono rigettate significativamente, iniziative di più ampio respiro sul fronte orientale (18). In tutto ciò, una parte può aver giocato anche l’intimo convincimento di disporre di una risorsa che nessun paese al mondo possedeva in egual misura: il cotone. Teoricamente un capitale annuo pari a $ 230.000.000, con cui comprare da altri paesi manufatti, armi, proiettili, attrezzature per l’industria, beni di ogni genere. Non solo: la lavorazione del prezioso tessuto era affidata in massima parte agli impianti manifatturieri europei e si pensava che senza importazioni, le fabbriche del Vecchio Continente avrebbero presto chiuso i battenti e licenziato gli operai, con pesanti ripercussioni sull’intera economia e sulla società. Tanta era la speranza nel potere del “Re Cotone” - come veniva popolarmente ribattezzato nel Sud il bene, alludendo anche all’influenza politica che esso aveva sulla vita economico-politica dei paesi esteri -  che, significativamente, Jefferson Davis nel febbraio del 1861, conversando con un occasionale compagno di viaggio, mentr’egli si stava recando a Montgomery per essere eletto Presidente, si diceva sicuro che l’Inghilterra e la Francia, a seguito del blocco navale unionista, sarebbero state costrette a riconoscere la neonata Confederazione, spingendosi a pronosticare che ciò sarebbe avvenuto in un lasso temporale di pochi mesi (19). Una volta ottenuto il riconoscimento, più volte sostenne Davis in quei primi mesi di guerra (ma anche in seguito), il Nord sarebbe stato dissuaso giocoforza dal continuare a battersi. E nel Sud si era così convinti del potere del cotone che alcuni giunsero persino a proporre, inizialmente, un embargo sulle spedizioni in Europa, sperando così di obbligare le principali potenze a schierarsi obtorto collo a fianco della causa secessionista. Si trattava di una chimera e nulla più: per quanto la mancanza della preziosa materia prima avesse ben presto fatto sentire il suo peso sull’industria tessile britannica (con oltre 180.000 lavoratori licenziati), non solo al governo di Sua Maestà ripugnava l’idea di essere costretto, per mezzo di una una sorta di ricatto, al riconoscimento della neonata Confederazione, ma la stessa classe lavoratrice inglese, sebbene duramente colpita, si opponeva con forza all’idea di un’alleanza con una nazione schiavista (20).
Nella fase successiva Davis, di fronte all’aumento della pressione unionista in più punti, sembra divisare, invece, una condotta strategica orientata sostanzialmente su di una difesa statica e territorialmente decentrata, vale a dire sulle frontiere naturali e quasi capillare, per assicurare l’integrità dei confini della Confederazione. Si trattava, nella sostanza, dell’applicazione della strategia militare teorizzata dall’Arciduca Carlo d’Austria in età napoleonica nei suoi “Principes de Strategie”, pubblicati nel 1818 e che erano stati filtrati nel Nuovo Continente attraverso l’esame critico che di essi aveva elaborato il generale Halleck. Circostanza assai più importante, il pensiero del nobile austriaco era stato fatto proprio, in parte, da Dennis Hart Mahan, teorico e insegnante presso l’Accademia di West Point, il quale aveva apprezzato l’enfasi posta sull’importanza delle fortificazioni campali. Mentre Mahan, però, sottolineava l’aspetto dinamico insito nelle opere fortificate (ossia, quale punto d’appoggio da cui muovere per sviluppare offensive o difese mobili a seconda dei casi e delle necessità), per l’Arciduca Carlo - il quale sembrava aver compreso assai poco del pensiero di Napoleone - il ricorso sistematico a fortini e guarnigioni fissi sulla frontiera francese, sarebbe stato il vero segreto delle vittorie francesi tra il 1795 e il 1809. Nulla di più facile, dunque che Davis, in qualità di Segretario alla Difesa negli anni 50’ sia venuto a contatto con tali teorie. Tuttavia, all’atto pratico, da principio, era ovviamente impossibile occupare ogni metro quadrato di suolo confederato. Nel 1861, il rapporto sarebbe stato di 1 uomo ogni 10 km quadrati, e quindi, per tal via, si sarebbe generata una dispersione del già limitato potenziale umano sudista del tutto folle, oltreché di fatto impossibile. Come rimediare, dunque, a tale problema? Il sistema escogitato da Davis fu quello di organizzare l’intero territorio della Confederazione in vari dipartimenti (Departments), divisi a loro volta in distretti o sub dipartimenti (Districts) di più piccole dimensioni e proporzioni, che avevano la funzione di difendere una zona particolare o anche solo una città o un luogo geografico di particolare rilievo strategico (21). In teoria ogni dipartimento militare era posto sotto la supervisione di un generale ed era controllato da quella che sulla carta doveva essere un’armata, ma sovente si rilevava, specie nei distretti, essere un’unità di dimensioni modeste: complessivamente un totale di 25 armate saranno organizzate, di cui alcune così minuscole da essere appena ricordate nei documenti (come l’Armata di New River o l’Armata dell’East Florida). Le due principali si rivelarono, senza dubbio,  l’Armata della Virginia Settentrionale sul fronte orientale e l’Armata del Tennessee su quello occidentale.
Ad ogni dipartimento era affidato il compito di amministrare, organizzare e difendere militarmente un’area della Confederazione; al comandante del singolo dipartimento era garantita nei limiti della sua autonomia, in teoria, un’illimitata libertà di condurre a suo piacimento operazioni offensive o difensive; così come concepita da Jefferson Davis, tale divisione comportava  che “nella conduzione di operazioni militari nei vari distretti occupati da nostre forze, un ampio potere discrezionale è necessariamente acquisito dai comandanti nei diversi Dipartimenti” (22); nella pratica era ovvio che ciò doveva armonizzarsi con la strategia militare e nazionale; alla discrezione e volontà di ciascun comando dipartimentale era quindi affidata la richiesta o l’offerta di truppe per condurre operazioni o dare assistenza ad altri dipartimenti, a meno che il comando supremo confederato non concertasse diversamente. Va da sé che nella mente del Presidente, vi era l’auspicio concreto che i vari comandi dipartimentali o distrettuali, messi da parte egoismi e meschini personalismi, collaborassero tra loro in modo da rendere più flessibile possibile quel suo disegno. L’idea, per vero, non era nuova, basandosi sul sistema prebellico in voga nell’Esercito degli Stati Uniti, che aveva suddiviso il territorio nazionale in quattro grandi dipartimenti; rispetto ad esso, tuttavia, Davis aveva creato un’articolazione molto più complessa che non giovava certo all’unitarietà del comando; occorre però dire che gli unionisti non fecero molto meglio e, anzi, se possibile, ingegnarono un apparato complessivo ancor più frammentato (23).      
Fu così che nel 1861, nella sola zona di teatro della Virginia furono creati il Dipartimento di Alexandria (anche chiamato del Potomac, perché posto immediatamente a ridosso del fiume Potomac, e quindi di Washington), quello di Fredericksburg (adiacente all’area del fiume Rappahannock), quello della Penisola (dislocato a protezione di Richmond), di Henrico (che controllava la capitale e le sue immediate vicinanze per un raggio di 15 chilometri circa) e quelli, più periferici a settentrione e a occidente, della valle del Shenandoah, del fiume Kanawha e del Nord-Ovest Virginia. Ad occidente degli Appalachi, esisteva una frammentazione proporzionalmente minore per quantità di dipartimenti, privilegiandosi, acutamente, un’estensione di territorio maggiore da coprire a cura di ciascun compartimento. Il Dipartimento nr.1 si occupava della difesa del basso Mississippi e della città di New Orleans. Due distinti Dipartimenti abbracciavano l’Alabama: quello dell’Alabama e della Florida dell’Ovest e il Dipartimento nr.2 che si occupava del territorio posto a nord dello stato. Quest’ultimo, diviso in numerosi distretti, era stato concepito come una sorta di superdipartimento con funzione di controllo della pressoché totalità dell’ovest (Arkansas, parte del bacino del Mississippi, il Tennessee nordoccidentale) che confinasse con il territorio occupato dall’Unione e quindi rappresentava, strategicamente, il punto di maggior importanza a occidente (24). V’erano poi, di minore estensione, il Dipartimento della Georgia, quello della Florida centrale e più ad orientale, quelli del North Carolina, del South Carolina, del Texas. Come si può notare, in questa prima fase, la frammentazione era notevole, persino eccessiva: più di un autore, ha sottolineato come essa abbia finito con il danneggiare gravemente le sorti del conflitto, creando compartimenti stagni privi di coordinazione tra loro (25). Tuttavia, l’articolazione dipartimentale aveva una sua precisa logica politico-militare e appare ancor oggi come un sistema, tutto sommato, adeguato alle esigenze di una nazione che, sorta dal nulla, si trovi nella necessità di darsi una forma e sia già sul punto di perire o essere invasa da un nemico maggiormente organizzato.
In effetti, numerose ragioni consigliavano di far ricorso ad un sistema di divisione territoriale così disperso, quantomeno da principio. Anzitutto, si deve tener conto, dell’estrema arretratezza del sistema ferroviario confederato, circostanza che impediva di tenere unito un così vasto territorio, specie a’occidente. Se si fosse provveduto a organizzare un sistema difensivo più accentrato, concentrando le principali masse armate nei punti nevralgici, da inviare poi nelle zone periferiche più minacciate, non sarebbe stato possibile contrastare con efficacia e soprattutto con tempestività ogni attacco: e per quanto l’invenzione del telegrafo avesse certamente contributo a rendere più semplici le comunicazioni da punti anche molto distanti fra loro, il reperimento, l’organizzazione e lo spostamento di ingenti truppe avrebbe comunque richiesto una quantità di tempo che il Sud non aveva a disposizione, quantomeno da principio, anche  per evidenti ragioni politiche, pena la perdita di quel consenso così faticosamente guadagnato.
Secondariamente, la mancanza di un’omogenea distribuzione delle risorse logistiche e naturali nella Confederazione, per forza di cose costringeva i meridionali ad una difesa del territorio quanto più possibile distribuita in maniera capillare. Non si potevano abbandonare, ad esempio, molte zone anche isolate del Tennessee orientale, da cui proveniva la massima produzione di rame, senza infliggere una grave colpo alla produzione di armi e proiettili, così come il Tennessee occidentale, a sua volta, non poteva essere sgombrato, senza perdere la principale fonte di approvvigionamento del ferro, necessario per forgiare corazze, cannoni e utensili. L’abbandono di parti apparentemente marginali del territorio della Virginia, avrebbe significato la rinuncia all’unica fonte di reperimento del sale. A differenza dell’Unione, che aveva abbondanza di risorse distribuite un po’ dappertutto in virtù di un sottosuolo dalla composizione più omogenea e che quindi poteva sopportare la perdita di ampie zone senza che a ciò seguisse una crisi negli approvvigionamenti delle materie prime (anche in forza del dominio dei mari), il Meridione si trovava in una situazione molto diversa. E ancora, si consideri che nelle prime fasi della guerra, la creazione di un sistema logistico centralizzato era ancora di là da venire: per mezzo del sistema dipartimentale, si intendeva perciò creare nell’immediato un sistema di zone quanto più articolato e diffuso possibile che fossero autosufficienti e assicurassero un adeguato rifornimento di viveri, abiti e armi alle truppe che mano a mano affluivano. Sino a quando non si fosse provveduto a creare un’efficiente sistema industriale nell’intero paese, nessun territorio poteva essere abbandonato: e abbiamo visto che ci volle almeno un anno per iniziare una distribuzione sufficiente.  All’inizio del conflitto, poi, un altro importante fattore di natura operazionale consigliava di far ricorso ad una decentralizzazione e quanto più estesa possibile forma di controllo del territorio, ossia l’assoluta carenza di dati in merito alla dislocazione delle forze nemiche, alla loro forza numerica e agli obiettivi di attacco prescelti: una capace organizzazione spionistica o di raccolta delle informazioni doveva essere ancora creata e il principale strumento per il reperimento di notizie circa i movimenti dell’avversario unionista, vale a dire la cavalleria, si trovava allora in uno stato embrionale.
Infine, la creazione di un sistema dipartimentale obbediva non solo a ragioni di natura strategico - militari ma anche politico - amministrative. Vi era infatti un altro motivo fondamentale che suggeriva a Davis di ricorrere a un sistema di difesa en cordon, basato sulla dispersione sul territorio di punti fissi ben trincerati che controllassero lo spazio immediatamente circostante in modo da impedire una penetrazione nemica direttamente sulla frontiera. Vale a dire, la necessità impellente di far sorgere una nazione dal nulla, per di più in tempi di guerra, creandone anche le basi burocratiche, stretto com’era tra questa e la presenza di una forte leadership politica negli stati componenti la Confederazione (specialmente nel North Carolina e nella Georgia) che vedeva con sospetto il tentativo del presidente della Confederazione di accentrare quanto più possibile poteri e risorse presso il governo centrale e che mal tollerava di rinunciare ad ogni controllo sulle milizie statali, sulla giurisdizione militare o sulla strategia stessa, lamentando spesso che le operazioni belliche erano condotte senza tener conto delle realtà locali o delle minacce che si palesavano presso i singoli stati. Su di un piano interno, si deve infatti considerare il carattere solo abbozzato del nazionalismo confederato: nei primi mesi di guerra sarebbe stato perciò essenziale mostrare a ciascun stato, regione, contea e città che il governo sudista era laggiù presente per mezzo di una propria organizzazione capace di presidiare il terreno, senza però scatenare gelosie o problemi di priorità tra le varie zone; anzi, affidando ai comandi decentralizzati l’immane compito di far sorgere e coagulare intorno alle istituzioni politico-militari confederate quel senso di appartenenza ad una nazione che molti, come accennato più sopra, ancor oggi negano esser mai del tutto sorto (26). Di conseguenza, appare evidente il duplice significato che assumeva per Richmond l’organizzazione compartimentale: fattore di controllo da parte del governo sul localismo strisciante, ma anche strumento di informazione circa le situazione periferica, sia in termini di semplice consenso o dissenso rispetto al suo operato, sia sotto il profilo più articolato della ricerca e trasmissione di dati e notizie su bisogni e problemi che si manifestavano in zone altrimenti inaccessibili. Su di un piano più esterno, invece, è facile comprendere come la Confederazione ambisse a presentare sé stessa non solo all’Unione, ma pure presso i governi europei come un’entità del tutto distinta da quella del governo federale, dotata di una propria organizzazione strutturata secondo i principi di un moderno stato: quale occasione migliore dunque di quella offerta da una divisione in dipartimenti dell’intero territorio meridionale, con la presenza di un diffuso apparato burocratico - militare ?
Come che sia, questo periodo coincise con il momento certamente più negativo per le fortune di Davis e per quelle dell’irredentismo sudista: “chi difende tutto, difende niente” ammoniva una massima di Federico il Grande. La contemporanea offensiva unionista su più fronti porta alla parcellizzazione delle forze sudiste ovunque si paventi il pericolo, con la creazione di enclave federali lungo la costa sia orientale (North Carolina) che meridionale ( South Carolina, Louisiana). La tragica caduta di Fort Donelson e Fort Henry, con la cattura di un numero enorme di soldati confederati, segnò il culmine di tale visione e ne decretò il definitivo fallimento: ma attribuirne la responsabilità tout court a Davis, viste le esigenze e difficoltà del momento, appare esagerato.  L’architettura congegnata dal presidente confederato, fu, piuttosto, l’effetto che la causa del fallimento complessivo della strategia operazionale confederata e delle debolezze strutturali del Sud: e la causa del tracollo progressivo del sistema risiede, ancora una volta e in ultima analisi, non solo nella forte tradizione localistica e autonomista propria dello spirito sudista che conduceva ad una frattura tra governo centrale e singoli stati o autorità locali, ma nelle umane inadeguatezze dei suoi ufficiali superiori nei teatri dell’ovest (27).
Anzitutto - in un certo qual modo imprevedibilmente per Davis, che aveva abbracciato la causa confederata senza riserva alcuna, ma anzi prendendosi sulle spalle il compito di dare alla neonata entità territoriale, dignità di nazione e pertanto confidava, a buona ragione, che altrettanto fossero disposti a fare gli altri, mettendo da parte ogni ambizione personale  - un’insanabile forma di provincialismo sorse in capo ai comandanti assegnati ai vari dipartimenti; ciascuno di loro gelosamente attaccato alle forze di cui disponeva, ciascuno di loro pronto a lamentarsi non appena un appello a coordinare o unire le forze giungesse da Richmond, ciascuno di loro pronto a giurare che proprio là, nella sua zona di competenze e controllo, si materializzava l’attacco principale unionista e che distrarre forze per congiungerle con altre, avrebbe significato perdere quel territorio e aprire un varco incolmabile nelle difese della Confederazione. Ciascuno, soprattutto, incline a dispute meschine ed egoiste su ranghi, autorità e capacità degli altri. Il tutto si tradusse in una rara miopia da parte di molti dei suoi ufficiali: si scorgeva la foglia, il ramo o l’albero trascurando la foresta, vale a dire il bene delle nazione. A ciò si aggiunga il graduale sorgere di vere proprie fazioni tra i gruppi di comando che piano a piano andavano formandosi nei vari stati maggiori delle principali armate dell’ovest e che finirono per l’agire ciascuna per proprio conto (28).
Così, la politica del laissez-faire a cui si improntava la condotta di Davis, assegnando ampia discrezionalità ai comandanti dipartimentali, dovette ben presto fare i conti con la loro incapacità. L’esempio forse più clamoroso di tale inadeguatezza è l’operato del Generale Leonidas Polk; dapprima costui condusse una dissennata campagna di occupazione del Kentucky, la cui popolazione, ancora incerta su quale fazione abbracciare, finì con lo schierarsi per l’Unione, mettendo fine alla sua neutralità: le conseguenze (più sul piano della perdita di numerose e preziose risorse logistiche che su quello del potenziale umano da arruolare) saranno per alcuni aspetti, irreparabili. La sua iniziativa non solo non fu mai autorizzata da Richmond, ma là si era addirittura all’oscuro del piano congegnato da Polk, sicché fu con malcelata insofferenza che si apprese della notizia (29). Sul piano militare, ancora più devastante si rileverà la perdita delle guarnigioni dell’Isola nr.10 e di Fort Donelson (insieme a Fort Henry), che per iniziativa ancora una volta di Polk, erano state inviate in modo scriteriato e senza alcuna concreta prospettiva strategico - tattica nelle due località per tentare di fermare le incursioni nordiste lungo il fiume Mississippi, Tennessee e Cumberland: la sciagurata idea costò ai meridionali ben 22.000 tra prigionieri, morti e feriti, oltre alla cattura di 168 tra cannoni e obici; e il tutto a costo di perdite irrisorie per gli unionisti, che si assicurarono pure il controllo dei corsi d’acqua. Nella circostanza era peraltro emersa anche l’incapacità di Albert Sidney Johnston (ben più abile di Polk, sulla carta) che nominalmente era a capo del Dipartimento dell’Ovest, di coordinare i movimenti delle truppe e a controllare l’operato del suo subalterno: a riprova, insomma, che per quanto Davis avesse voglia di concepire un sistema difensivo efficace, occorreva poi trovare generali che sapessero comandare le armate sul campo con sagacia e abilità. A occidente cominciava ad andare in scena “la commedia degli errori”: come sono stati felicemente riassunti gli eventi su quel teatro di operazioni da Thomas L.Connelly; in realtà non di commedia si trattò, ma di una tragedia vera e propria che costò non solo la causa dell’indipendenza sudista e un numero enorme di perdite tra prigionieri morti e feriti: un dramma a cui, per primi, i valorosi soldati dell’Armata del Tennessee, dovettero assistere impotenti. Certamente, come è stato sottolineato, la creazione di piccoli dipartimenti (e ancor più dei distretti) spesso produceva un’inutile dispersione di ottimi comandanti o la duplicazione di comandi altrimenti indispensabili presso le principali armate; ed è altrettanto vero che non sempre era chiara la funzione assegnata ad un comandante di un dipartimento rispetto alle forze controllate in altra zona particolare di quello stesso territorio, da un altro ufficiale, ovvero nel territorio immediatamente contiguo; né infine si può negare che la politica di decentralizzazione, finì, in qualche caso, con l’accrescere una certa inerzia tra i comandanti e una tendenza a guardare nel proprio orticello: ossia proprio il contrario di quella spinta centralistica che si voleva ottenere. E tuttavia il difetto principale, per ripeterci, non stava nel concetto: esso piuttosto risiedeva nella scelta degli uomini chiamati a realizzare quell’idea; Robert Edward Lee, a cui fu concessa la medesima libertà d’azione, seppe sempre farne tesoro per condurre mirabili campagne militari. All’ovest ciò non avvenne.
Se una censura può essere mossa al Presidente Davis, non è tanto quella di aver creato un  rigido sistema dipartimentale di difesa, quanto di aver esercitato un controllo troppo lieve nei confronti degli ufficiali posti al loro comando. Qui in fondo emergeva la vera debolezza dell’uomo Davis, più che le sue erronee idee strategiche: l’incapacità ad assumere decisioni draconiane o, se si preferisce, la fedeltà, nei confronti di uomini che egli conosceva personalmente (o aveva conosciuto nel corso della sua vita, sia ai tempi della sua frequentazione di West Point sia successivamente quale Segretario alla Guerra dello stato federale) e di cui conosceva difetti e limiti  - come Leonidas Polk, Joe Johnston e altri ancora – rimuovendoli definitivamente dalle posizioni ricoperte o spedendoli in teatri secondari a far il meno danno possibile. La sua nemesi unionista, Abraham Lincoln, non si fece mai di questi scrupoli: e alla lunga la ricerca di abili ufficiali da parte di costui, costellata come fu di rimozioni e allontanamenti, diede il risultato sperato.  Certo anche la debolezza politica di Davis giocò un ruolo: ancora una volta alla repubblica confederata sarebbe occorso un afflato autenticamente rivoluzionario sin dall’inizio, vale a dire l’imposizione di un’autorità governativa centralizzata in contrasto con le premesse da cui la secessione era nata. Forse, sarebbe stato troppo chiedere a Jefferson Davis di imporre le sue vedute da principio (ché queste non gli mancavano certamente, ma erano giocoforza destinate a scontrarsi con il forte localismo sudista): è certo però che in questo ebbe parte delle sue responsabilità.
Nel marzo del 1862, rispondendo a un critico, preso atto del fallimento militare in cui si stava dibattendo la Confederazione, Davis riconoscerà in modo aperto (e con una franchezza che gli fa onore) lo sbaglio dell’aver voluto adottare una difesa statica e capillare del territorio: “Riconosco lo sbaglio del mio tentativo di [voler] difendere tutta la frontiera, le coste e l’interno; ma dirò a [mia] giustificazione, che se avessimo ricevuto le armi e munizioni che a buona ragione attendevamo, il tentativo avrebbe avuto successo e i campi di battaglia sarebbero stati sul suolo nemico. Voi sembrate essere caduto nel comune errore di supporre che io abbia scelto di condurre la guerra su un sistema < >. Il vantaggio di scegliere tempo e luogo  di attacco è troppo evidente perché sia stato abbandonato, ma i mezzi mancavano. Senza risorse militari, senza le officine per creare esse, senza la possibilità di importarle, [la] necessità non [una] scelta ci ha obbligato a occupare forti posizioni e dappertutto per confrontare il nemico senza riserve. Il paese supponeva le nostre armate più numerose di quanto fossero, e le nostre munizioni per la guerra più estese di quanto si sono rivelate. Ho preferito stare in silenzio innanzi ai rimproveri, poiché replicare con un’esatta esposizione dei fatti avrebbe mostrato la nostra debolezza al nemico” (30).
Si tratta di un documento notevolissimo per lucidità, che non solo spiegava l’operato del comando supremo confederato sino ad allora, ma affermava esplicitamente la necessità e i vantaggi di assumere l’iniziativa quando ciò fosse praticabile. Si affermava perciò, una terza fase della strategia confederata a far data dalla primavera del 1862 e ,con essa, un’altra e nuova stagione, quella della definitiva maturità dell’alto comando sudista, si apriva: non più una semplice difesa di natura statica, ma una maggior ricerca della concentrazione delle forze armate, fondata sullo sfruttamento delle linee interne per affrontare il nemico laddove esso si trovasse (concentrazione a Corinth, attacco a Shiloh, primavera 1862); in termini più generali, il tentativo di coordinare le masse armate sudiste disperse qua e là. Anche in questo secondo periodo l’enfasi sembra porsi sulla fase difensiva: ma l’abbandono di una difesa basata su posizioni fisse e disperse, permette ora di liberare energia per eventuali offensive (offensiva nel Maryland e nel Kentucky, autunno 1862).
Le conseguenze di questa nuova strategia sono ben riflesse nel cambiamento intervenuto a far data dal 1862 nella primigenia struttura dipartimentale. Di conseguenza,  nel teatro orientale fu creato il Dipartimento della Virginia Settentrionale riunendo così sotto un unico comando, i vari dipartimenti di Alexandria (o del Potomac) di Fredericksburg e della valle del Shenandoah, mentre nell’aprile dell’anno successivo anche i Dipartimenti della Penisola e di Norfolk (immediatamente adiacente al primo) saranno fusi con quello principale. Il dipartimento del North Carolina fu ampliato sino a comprendere parte della Virginia sud-occidentale (sino a inglobare  Petersburg) e fu ribattezzato Dipartimento del North Carolina e Southern Virginia. A far data dal novembre 1861 venne alla luce il nuovo Dipartimento del South Carolina, Georgia e Florida che assorbiva i Dipartimenti del Middle e Eastern Florida e quello della Georgia. Sul versante più occidentale, già nel luglio del 1861 fu creato il Dipartimento dell’Ovest o nr.2 che riunì i dipartimenti nr. 1 e quello dell’Alabama e del West Florida: questo nuovo superdipartimento abbracciava parti della Louisiana e della Georgia, il  Mississippi  e l’Alabama per intero e gran parte del Tennessee. Un nuovo superdipartimento venne poi alla luce nel maggio del 1862, comprendente ogni territorio ad ovest del Mississippi: il Dipartimento del Trans Mississippi in cui vennero conglobati mano a mano il Dipartimento del Texas, il Distretto dell’Arkansas e parte della Louisiana. E’ evidente così l’intento di ottimizzare la divisione delle varie zone di comando, riunendo di fatto in cinque grandi aree militari la copertura del territorio. Un periodo di accentramento e razionalizzazione, dunque, solo in parte mutato, più tardi, dalla creazione di un nuovo Dipartimento di più modeste dimensioni, ossia quello dell’East Tennessee (31). Come sottolineato un po’ da tutti i protagonisti e interpreti del conflitto civile americano, per quanto il Presidente si sia sforzato di adottare un maggior concentramento delle forze confederate nei punti nevralgici e presso le armate principali, nondimeno la dispersione degli uomini rimase un problema in gran parte irrisolto, che minò, insieme ad un’incompetenza generalizzata sul teatro di guerra occidentale, molte delle prospettive di successo militari della Confederazione. Un semplice dato statistico può dar conto di tale problematica: dei 174.233 uomini che si arresero nel maggio 1865, solo 59.048 erano presenti nelle due maggiori armate.
Quel che, però, preme sottolineare qui, è come questa nuova visione strategica, che non abbandonerà più Davis (e de facto l’intero comando supremo confederato) sino al termine del conflitto, rappresentasse null’altro che una mediazione e un compromesso tra la visione jominiana della concentrazione delle forze (come vedremo a breve) e quella basata sul principio della difesa territoriale perimetrale. E come ogni compromesso e mediazione, essa oltre a scontentare tutti, si sarebbe rivelata foriera di gravi conseguenze nell’ora delle scelte supreme. Comprendere questo significa, in gran parte e a nostro giudizio, spiegare le decisioni adottate della primavera-estate 1863.

Note alla parte 1
(1) R. Luraghi, La Guerra Civile Americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, Milano: Rizzoli, 2013.
(2) Ibi,, pp. 157-165.
(3) Cfr. Constitution of the Confederate States, article II, sect.2, riprodotta in C. A. Evans (a cura di), Confederate Military History. A Library of Confederate States History. 17 voll. edizione integrale ed estesa.,Wilmington, NC: Broadfoot Publishing Company, 1987, XVII, pp. 371 ss.; An Act to Raise Provisional Forces for the Confederate States of America and for Other Purposes, in J.M. Matthews (a cura di), The Statutes at Large of the Provisional Government of the Confederate States of America, 2 voll., Richmond: R.M.Smith, 1864, vol. 1, p. 43. La “strategia” si può scindere in strategia nazionale o grande strategia, strategia militare e strategia operazionale; la strategia nazionale delimita e precisa gli scopi e obiettivi di una nazione in tempo di guerra, mentre è la strategia militare che si occupa del modo in cui le forze armate, su di un piano più strettamente pratico, debbano perseguire la strategia nazionale; la strategia operazionale è invece la preparazione, studio e attuazione specifica, su di un unico fronte o un singolo teatro di operazioni, della strategia militare.
(4) Cfr. D.S. Freeman Lee’s Lieutenants: A Study in Command, 3 voll., New York: Charles Scribner’s & Sons, 1942-44, I, pp.4-5.
(5) Hatthaway & A. Jones, How the North Won.  A Military History of the American Civil War, Urbana: University of Illinois Press, 1983, pp. 107-08.
(6) Sostituito dopo pochi mesi lo scialbo Leroy Pope Walker con l’onnipresente (ma ugualmente incapace, almeno in tale ruolo) Judah P. Benjamin, dal settembre 1861 sino al marzo 1862, la carica fu affidata a George Wythe Randolph (18.3.1862-15.11.1862) e poi a James Alexander Seddon (21.11.1862-5.2.1865) che la mantenne in pratica fino a guerra finita, se si fa eccezione per l’ultimo periodo (circa due mesi) in cui si installò il più abile tra costoro, insieme a Seddon, ossia John Cabell Breckinridge. Un giudizio complessivamento positivo dà F. E. Vandiver, Rebel Brass: The Confederate Command System, Baton Rouge, LA: Louisiana State University Press, 1956, pp. 42-64, ove viene analizzato il pensiero e l’operato dei Segretari alla guerra succedutisi nel tempo.
(7) A. Jones, Civil War Command and Strategy: the Process of Victory and Defeat, New York: Free Press, 1992, pp.11-13.
(8) Il piano Anaconda consisteva, in estrema sintesi, nell’attuazione di un rigido blocco navale intorno al Sud e la contemporanea occupazione del fiume Mississippi con un corpo d’armata composto da 80.000 uomini per strangolare l’economia sudista: idea che, per quanto assai acuta e brillante, avrebbe richiesto molto tempo per essere attuata e mal si sposava con le aspettative dell’opinione pubblica che richiedeva tempi rapidi per la soluzione della crisi tra le due sezioni e come tale fu presto abbandonata; si veda W. Scott a G. B. McClellan lettera del 3 maggio1861, in U.S. War Department (a cura di) The War of the Rebellion: a compilation of the Official Records of the Union and Confederate Armies,70 voll. in quattro serie (ciascun volume a sua volta suddiviso in parti per un totale di 128 vol.), Washington: Government Printing Office, 1880-1901 (a meno di indicazione contraria, le citazioni si riferiscono alla 1a serie; così d’ora in poi OR, 11, pt.1, p.128: sarà da leggere come serie prima, volume undicesimo, parte prima, pagina 128; OR IV, 2, p.11 sarà invece da leggere come serie quarta, volume secondo, pagina 11) vol.51 pt.1, pp. 369-70, 386-87.
(9) J. Davis a J. E. Johnston, 6 marzo 1862 in L.L.Crist et alii (a cura di) The Papers of Jefferson Davis, 13 voll., Baton Rouge: Louisiana State University, 1971-2012 (d’ora in poi PJD), 8, pp. 81-82.
(10) J. Davis a J. E. Johnston, 28 febbraio 1862, ibidem, p. 69.
(11) J. Davis a P.G.T. Beauregard, 30 ottobre 1861 in A. Roman, The Military Operations of General Beauregard in the War Between the States 1861-65, 2 voll.,New York: Harper and Brothers, 1884, vol.1, p.165.
(12) J. Davis, Discorso al Congresso Provvisorio Confederato, 29 aprile 1861 in D. Rowland (a cura di), Jefferson Davis, Constitutionalist: His Letters, Papers and Speeches, 10 voll., Jackson, Miss.: Mississippi Department of Archives and History,1923, vol.5, p.84.
(13) G. McWhiney & P.D. Jamieson, Attack and Die: Civil War Military Tactics and the Southern Heritage, Tuscaloosa, AL: University of Alabama Press, 1982, pp. 5- 6: un’attenta analisi delle poche fonti quivi addotte (che si sostanziano in alcuni passi estrapolati da discorsi pronunciati dal Presidente), tuttavia, dimostra come si tratti di generici riferimenti e semplici proclami di carattere propagandistico, tipici di qualsiasi leader in tempo di guerra. Di maggior interesse è  J.L.Harsh, Confederate Tide Rising. Robert E Lee and the Making of Southern Strategy, 1861-1862, Kent, OH: The Kent State University Press, 1998, pp. 18, 20. La discussione è eccellente, e l’opera assolutamente essenziale per profondità di analisi: ma è lo stesso autore poi a riconoscere l’esistenza di una serie di fasi caratterizzate da prospettive diverse nel pensiero strategico di Davis: strettamente difensive e offensivo-difensive, si veda ad es. pp. 21-46.
(14) S.E. Woodworth, Lee & Davis at War, Lawrence: University Press of Kansas, 1994 cit. pp. xii, 328.
(15) W.C. Davis, Jefferson Davis. The Man and His Hour, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1991,pp.700ss.
(16) F. Vandiver, Their Tattered Flags: The Epic of the Confederacy, New York: Harper’s Magazine Press, 1970 pp.121-122; E.M. Thomas, “Ambivalent Visions of Victory: Davis, Lee and Confederate Grand Strategy”, in in G.S. Boritt (a cura di), Jefferson Davis’s Generals, New York: Oxford University Press, 1998 pp. 31-32;  J. McPherson, Battle Cry of Freedom: The Civil War Era, New York: Oxford University Press, 1988, p. 363. Su di un piano intermedio tra strategia difensivista e opzioni offensive si pongono T.L. Connelly & A. Jones, The Politics of Command: Factions and Ideas in Confederate Strategy, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1973 cap. 4.
(17) Due vaghi accenni ad una strategia offensivo - difensiva e ad una strettamente difensiva sono contenuti nella sua opera memorialistica pubblicata a qualche anno di distanza dalla cessazione delle ostilità:  ma riferendosi a particolari situazioni strategiche a livello operazionale l’una e l’altra all’operato di Lee, da essi è difficile potersi far discendere una qualsiasi conclusione; si veda, in ogni caso, J. Davis, The Rise and Fall of the Confederate Government, 2 voll., New York: Appleton, 1881, vol. 1, p.314; vol. 2, pp. 132-33.
(18) Il riferimento qui è al piano elaborato dal Generale Pierre Gustave Toutant Beauregard nell’ottobre 1861 per l’invasione del Maryland: cfr. P.G.T. Beauregard, “The First Battle of Bull Run”, in R. U. Johnson & C. C. Buel (a cura di), Battles and Leaders of the American Civil War, 4 voll., New York: Century Co., 1887-88, I, pp.221-222; A. Roman, The Military Operations of General Beauregard in the War Between the States 1861-65, cit., vol.1, p. 137;  Memorandum del generale G.W. Smith redatto in data 31 gennaio 1862 in OR, vol.5 pp. 884-886; J. Davis, The Rise and Fall of the Confederate Government, cit., vol.1, pp.449-50.
(19) PJD, vol. 11, p. 594.
(20) D. B. Ball, Financial Failure and Confederate Defeat, Urbana: University of Illinois Press, 1992, p.88. In realtà le importazioni del tessuto grezzo dal continente americano, furono rimpiazzate con quelle provenienti dall’Egitto, dalla Cina e dall’India.
(21) Così, ad esempio, il Distretto dell’Alabama, posto nel Dipartimento dell’Alabama e del West Florida, era responsabile della difesa della città di Mobile. Per una discussione bilanciata circa la divisione in Dipartimenti e Distretti, si veda T.L. Connelly & A. Jones, The Politics of Command: Factions and Ideas in Confederate Strategy, cit., pp.87-136 e  170-200.
(22) J. Davis a Humphrey Marshall, 24 febbraio 1863 in D. Rowland (a cura di), Jefferson Davis, Constitutionalist: His Letters, Papers and Speeches, cit. vol.5, p.436.
(23) Vedi l’elencazione assai minuziosa dei vari dipartimenti di ambo le parti in T.L. Jones, The A to Z of the Civil War, 2 voll., Lanham, MY: The Scarecrow Press, 2006, I, pp. 392-415 e in D. S. Heidler e J. T. Heidler (a cura di), Encyclopedia of the American Civil War. New York-London: W. W. Norton, 2002, D.S. Heidler & J.T.Heidler s.v. “Departments, Military, C.S.A.” pp. 583-586 e Id. s.v.“Departments, Military, U.S.A” pp. 586-593.
(24) Cfr.T.L. Connelly & A. Jones, The Politics of Command: Factions and Ideas in Confederate Strategy, cit., pp.93-94.
(25) R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Torino: Einaudi, 1966, p. 266.
(26) L’esaltazione dei poteri dei singoli stati, assai risalente nel dibattito politico-filosofico americano, si basava sul principio della sovranità del popolo e degli stati locali; secondo tale teoria, l’adesione di questi ad una federazione come gli Stati Uniti d’America trovava il proprio fondamento legale nell’autorità del governo locale eletto dal popolo di ogni singolo stato: esso aveva dunque piena autonomia rispetto al governo centrale, che altri non rappresentava che un’emanazione di ciascuno stato e della sua popolazione. Così come essi potevano aderire ad una Federazione in virtù della volontà dei singoli stati (e dei suoi abitanti), gli stessi erano però liberi di recedere in ogni momento. Proprio in forza di tale principio lo stato del South Carolina dichiarò nel 1860 il proprio diritto di secessione. Sud e Confederazione (sebbene i termini siano da noi impiegati in maniera indifferente) non necessariamente coincidevano: se era ben evidente che nel Meridione si era creata una civiltà del tutto distinta da quella del Settentrione, ad essa occorreva dare una forma ben precisa sotto il profilo dell’identità nazionale; in breve, occorreva far sorgere dal nulla una nazione. Era un compito immane, che portò seco conflitti e scontri tra diverse visioni. Il tema della contrapposizione tra fautori dei diritti locali e governo centrale all’interno della Confederazione è vastissimo. Si vedano comunque tra i più significativi: F.L. Owsley, State Rights in the Confederacy, Chicago: University of Chicago Press, 1925; G.L. Tatum, Disloyalty in the Confederacy, Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1934; E.M. Thomas, The Confederacy as a Revolutionary Experience, Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1971; P.D. Escott, After Secession: Jefferson Davis and the Failure of Confederate Nationalism, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1978; D.G. Faust, The Creation of Confederate Nationalism: Ideology and Identity in the Civil War South, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1988; G.C. Rable, The Confederate Republic: A Revolution against Politics, Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1994. Un’eccellente sintesi delle problematiche è in R.N. Current, s.v. “State Rights” in R.N. Current (a cura di) Encyclopedia of the Confederacy, 4 voll.,New York: Simon & Schuster, 1993, vol. 4, pp. 1531-1537. Per un ampio ridimensionamento e confutazione dell’influenza del conflitto tra diritti degli stati e governo centrale sulle sorti militari confederate, si veda R.E. Beringer et alii, Why the South Lost the Civil War, Athens: University of Georgia Press, 1986.
(27) Sulla storia delle armate confederate dell’Ovest e in special modo sull’incompetenza degli ufficiali al comando dell’Armata del Tennessee, si veda in generale: T.L. Connelly, Army of the Heartland: The Army of Tennessee, 1861-62, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1970;, ID., Autumn of Glory: The Army of Tennessee, 1863-64, Baton Rouge: Louisiana State University Press. 1971; R.M. McMurry, Two Great Rebel Armies: An Essay in Confederate Military History, Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1989; S.E. Woodworth, Jefferson Davis and His Generals: The Failure of the Confederate Command in the West, Lawrence: University Press of Kansas, 1990.
(28) Cfr. L. Connelly & A. Jones, The Politics of Command: Factions and Ideas in Confederate Strategy, cit., spec. cap. 3. Le considerazioni e conclusioni degli autori sull’individuazione (e l’influenza) delle varie fazioni sono da prendere alcune volte con le molle, a nostro avviso, ma contengono anche alcuni innegabili meriti e verità.
(29) Cfr. S.E. Woodworth “Davis, Polk and the End of Kentucky Neutrality” in Id., No Band of Brothers. Problems of the Rebel High Command, Columbia, MI: University of Missouri Press, 1999, pp.12-18.
(30) J. Davis a W. M. Brooks, 13 marzo 1862, in PJD, vol. 8, pp.100-102. Il documento è riprodotto anche in OR, ser. IV, 1, pp.998-99.
(31) T.L. Connelly & A. Jones, The Politics of Command: Factions and Ideas in Confederate Strategy, cit., pp. 100-102.

 2.Quattro alternative militari: Beauregard, Bragg, Johnston e Lee.
Come visto, la risposta offerta da Davis alle problematiche strategiche in cui si dibatteva la Confederazione era di natura, come diremmo oggi, tridimensionale. Essa cioè teneva (e doveva necessariamente tenere) conto non solo dell’aspetto più schiettamente militare, ma anche delle necessità politiche generali e delle caratteristiche  più profonde della società sudista, compresa la vexata quaestio della schiavitù. E in quanto tale la sua risposta aderiva perfettamente, ancora una volta, al noto dettato clausewitziano sulla guerra, ossia di una prosecuzione della politica con altri mezzi, nel suo senso, però, più ampio: la strategia nazionale militare e la dislocazione delle armate dovevano (e non potevano che) riflettere il carattere della nazione sudista, con le sue fragili basi e il suo accentuato localismo. Al contrario, la soluzione che dovevano fornire gli ufficiali chiamati a condurre quelle stesse armate, poteva permettersi il lusso di prescindere da tali questioni: e in quanto tale, come vedremo subito, aveva spesso carattere unidimensionale (con l’eccezione forse di quella formulata da Robert Edward Lee) privilegiando solo l’aspetto strettamente militare, senza cioè tenere in conto, se non di riflesso, il carattere della realpolitik confederata e del tessuto sociale proprio del Meridione. Un punto di non poco conto, a ben vedere, e di cui occorre sempre tener conto prima di esaminare con occhio eccessivamente critico l’operato di Davis. Sotto tale profilo, v’è certamente del vero nell’affermazione dello storico americano T. Harry Williams secondo cui “molti dei generali della Guerra Civile andarono in battaglia con la spada in una mano e una [copia] del Summary of the Art of War di Jomini nell’altra” (32). Né avrebbe potuto essere altrimenti: il pensiero di Antoine-Henri Jomini, un aristocratico svizzero che aveva potuto osservare e studiare da vicino le campagne di Napoleone, avendovi anche partecipato, era divenuto il fulcro della didattica all’Accademia di West Point (presso cui si erano formati molti ufficiali americani che poi aderirono ad ambo le parti) grazie all’insegnamento di Dennis Hart Mahan, autore della fortunata opera Advanced-Guard Outpost and Detachment  Service of Troop, pubblicato nel 1847.  Il libro, adottato come manuale e principale guida nel corso di studi di tattica e di  strategia a West Point, riprendeva molte delle idee di Jomini, anche se accentuava i vantaggi di una condotta operazionale e tattica di natura offensiva e sottolineava l’importanza delle opere ingegneristiche come perno per la manovra. In seguito i concetti jominiani erano stati fatti propri, in modo del tutto acritico da Henry Halleck, nel suo popolare digesto Elements of Military Art and Science apparso nel 1862 e subito divenuto di larga diffusione. I cardini del pensiero jominiano erano sostanzialmente due: il principio della concentrazione delle forze armate e lo sfruttamento delle linee interne per facilitare la loro unione nel punto principale di sforzo, offensivo o difensivo che fosse. La massa dalla concentrazione degli uomini offriva indubbiamente il vantaggio di poter colpire con maggior forza l’esercito avversario: e per un nemico inferiore di numero, come quello sudista, esso diveniva quasi un precetto imperativo.  A maggior ragione poi, considerato che le armate unioniste dovevano necessariamente dividersi per occupare il territorio sudista e che il vantaggio offerto dalle linee interne stava, in apparenza, tutto dalla parte dei confederati, è chiaro che tali principi base divennero una sorta di mantra cui aderire, spesso, incondizionatamente. Peraltro l’esperienza maturata durante la vittoriosa guerra contro il Messico (1846-48), aveva rafforzato la convinzione che l’assunzione dell’offensiva arrecasse indubbi vantaggi. In realtà la pedissequa osservanza di tali idee da parte degli ufficiali superiori di ambo gli schieramenti fu più limitata di quanto si creda e sia stato affermato. In effetti, occorre tenere conto di una circostanza molto importante: il guru del pensiero strategico americano della prima metà dell’ottocento, Mahan, appunto, non iniziò il proprio insegnamento che nel 1836, sicché molti ufficiali protagonisti della guerra civile si formarono su concetti e principi in parte diversi da quelli jominiani. In particolare, di grande influenza risultò il trattato di John Michael O’Connor (A Teatrise of the Science of War and Fortifications, 1817), anch’egli insegnante a West Point, ma nel primo ventennio dell’800’, il quale altro non era che la traduzione dall’originale francese, dell’opera dell’ingegnere Gay de Vernon, uno studioso dell’arte militare settecentesca. In esso il pensiero di Jomini, per quanto presente (vi era un appendice di un centinaio di pagine circa, contenente una traduzione di parte del Traité de grande tactique) risultava diluito dai principi strategico-tattici di Federico il Grande, così come fatti propri dal de Vernon, ove la massima attenzione era posta alla scelta del terreno e della posizione ottimale per combattere, più che ai principi strategici generali. Oltre a ciò, la biblioteca di West Point conteneva molte opere in originale francese (o di recentissima traduzione) dedicate alle campagne e al pensiero di Napoleone, non ancora filtrato da Jomini, il quale, per vero, ne aveva dato una visione eccessivamente rigida e unilaterale, quasi geometrica, dimenticando il grande insegnamento del genio corso sull’importanza dell’improvvisazione e dell’adattamento al mutare degli eventi in guerra. Si rammenti, infine, che l’opera del teorico prussiano Carl von Clausewitz, Von Krieg, era ancora di là dall’essere tradotta in lingua inglese: ciò avverrà solo nel 1865. In definitiva, presumere che il pensiero strategico militare americano prebellico fosse dominato esclusivamente da Jomini e dai sui epigoni è in gran parte erroneo. Indubbiamente, chi però mostrò di essere legato al pensiero jominiano più di ogni altri (e, forse, in misura ancora maggiore, a quello di Mahan) , fu il generale Pierre Gustave Toutant Beauregard.  Del resto, egli era nativo della Louisiana e di discendenza creola, sicché la lingua francese era per lui un idioma del tutto familiare e nella lettura degli originali di Jomini o delle massime di Napoleone non incontrava alcuna difficoltà. A ciò si aggiunga che nella sua adolescenza era stato spedito a New York per apprendere la lingua inglese sotto la guida di due precettori che avevano servito nella Grande Arméé come ufficiali. Beauregard, insomma, era cresciuto nel mito di Napoleone, che anche nelle pose, egli ricordava. Ma qual era la sua visione strategica? Invitato a collaborare dalla rivista periodica americana “Century Magazine” al termine del conflitto (insieme a molti altri ufficiali di ambo le parti) per commentare i principali scontri e avvenimenti della guerra civile, nella stesura di un polemico articolo sulla prima battaglia di Manassas, Beauregard sostenne che “mai nessun popolo è entrato in guerra per l’indipendenza con più relativi vantaggi dei confederati” spiegando che “il Sud con le sue grandi risorse materiali,[sic!] i suoi mezzi difensivi costituiti da montagne, rive, ferrovie e telegrafo, con l’immenso vantaggio delle linee interne” sarebbe stato screditato per il suo fallimento se ciò si fosse potuto giustificare solo in base a fattori materiali, alludendo alla disparità numerica ed economica tra le due sezioni (33). No, sostenne Beauregard. Unicamente l’atteggiamento oltremodo cauto del “capo del Governo”, la sua passività e l’incapacità di concepire i vari teatri di guerra come un’unica parte del tutto, determinarono la sconfitta della Confederazione. L’eccessiva timidezza di Davis, il suo modo di condurre la guerra estremamente cauto e la dispersione delle forze un po’ ovunque in difesa del territorio, non permisero di concentrare le forze in un punto per sferrare un attacco decisivo che avrebbe avuto esito positivo, anche grazie allo sfruttamento delle linee interne da parte delle forze confederate. Più volte, egli aggiungeva, questo atteggiamento eccessivamente passivo condusse a disastrose conseguenze, come nell’estate del 1863 a Vicksburg o, ancora, un anno dopo, allorquando Grant alla testa delle truppe unioniste, attraversò il James e cinse d’assedio Richmond. In più occasioni, continuava Beauregard, aveva esposto al Presidente le proprie vedute e proposto azioni offensive direttamente contro Washington: vale a dire, non appena assunto il comando delle truppe stanziate in Virginia nel giugno 1861, immediatamente prima e dopo la prima battaglia di Manassas e nell’ottobre del 1861, nel corso di una conferenza con Davis e il generale Joseph E. Johnston. Ma in ciascuna di queste circostanze, affermava Beauregard, ne aveva ricevuto un rifiuto, dovuto anche a questioni squisitamente personali, alludendo così al dissidio creatosi con Davis a causa dall’invidia scatenatasi in quest’ultimo per la sua vittoria a Manassas. Che cosa occorresse fare, egli lo esplicitò chiaramente: “Ero convinto che il nostro successo risiedesse nel [condurre] una guerra breve, veloce [fatta] di  colpi decisivi, prima [che] i Federali, con le loro immense risorse, potessero creare una grande potenza militare; a tal fine, un uso concertato delle nostre forze, immediato e sostenuto, era necessario, di modo che, per quanto noi fossimo più deboli in ogni punto separato, nondimeno noi potessimo colpire con una forza superiore in un punto prescelto,  e dopo [la] vittoria colà si potesse raggiungere, ora più facilmente, una vittoria in un altro posto. Invece di ciò, che in guerra viene detta concentrazione, la nostra politica effettiva fu la dispersione, una forza confederata inferiore in ogni punto separatamente sulla difensiva ad affrontare una superiore forza federale; la nostra forza esaurendosi di giorno in giorno, quella del nemico incrementandosi. La dichiarata politica federale essendo quella dell’< attrito>, le loro superiori masse logoravano le nostre più piccole, una per una, fino ad annullarle.” (34). Come si può notare il pensiero di Beauregard era dominato dall’idea della concentrazione delle armate in un punto del fronte e dalla convinzione che solo prendendo l’iniziativa ed invadendo il territorio settentrionale, il Sud potesse guadagnare la propria indipendenza. E ciò avrebbe dovuto essere fatto immediatamente, allo scoppio delle ostilità. Notevole appare anche l’intuizione che una guerra di logoramento e attrito, avrebbe condotto alla distruzione, pezzo per pezzo, delle armate confederate: la Confederazione, di conseguenza, avrebbe dovuto agire prima che la gigantesca industria del Nord si mettesse in moto per sfornare fucili, cannoni, ogni altro materiale occorrente e l’organica settentrionale riuscisse ad inquadrare l'enorme potenziale umano di cui disponeva l'Unione . Qui dunque il pensiero di Mahan - forse ancor più che quello di Jomini - appare nella sua massima espressione. Epperò, come è stato acutamente notato, la riflessione di Beauregard era dominata “dal pensare la guerra come qualcosa che stava nei libri e che dovesse essere combattuta in conformità a dei criteri fissi.” (35). In altre parole, una visione, del tutto “accademica” e, come tale, spesso slegata dalla realtà politica o dalla stessa praticabilità strategica. In questa sede non rileva tanto analizzare o meno la bontà e fattibilità dei piani proposti da Beauregard - realizzabilità che, sia detto per inciso, appariva quanto mai immaginaria, data l’impreparazione delle truppe e la mancanza di un numero adeguato di uomini e armi per condurre una campagna offensiva nei primi mesi di guerra - quanto sottolineare l’unidimensionalità del suo pensiero. E si potrebbe anche osservare, non senza un pizzico di ironia, che le qualità marziali di Beauregard,  brillarono più allorquando egli fu chiamato ad agire sulla difensiva - come nella difesa della città di Charleston, nel South Carolina e più tardi nella campagna di Bermuda Hundred, a protezione di Richmond e Petersburg nella Virginia - piuttosto che quando fu chiamato a darsi da fare all’offensiva; in tali occasioni, come dimostrato dalla prima battaglia di Manassas e da quella di Shiloh, Beauregard cadeva preda di una certa confusione mentale e tendeva ad elaborare manovre eccessivamente complicate; di certo, non può neppure sfuggire com’egli tendesse a dare massimo rilievo a differenti punti strategici a seconda di dove si trovasse e potesse o, semplicemente sperasse, darvi il proprio personale contributo: dapprima all’est e poi ad occidente. Ma il punto da sottolineare, piuttosto. è un altro. Al di là di screzi personali con Davis, dissidi che condurranno Beauregard sul teatro di operazioni occidentale dapprima e, poi, dopo la sua precipitosa fuga da Corinth, immediatamente dopo Shiloh, ad essere relegato in posizione defilata a Charleston, appare evidente come la strategia del generale creolo, non potesse essere adottata da Davis. Tale discrasia, è in realtà alla base del contrasto fra i due: un dissidio più che di natura interpersonale, di natura politica e di visione d’insieme delle problematiche della Confederazione. Vedremo poi come tale scontro avrà i suoi effetti sulle decisioni assunte nella primavera 1863.
Ma qualcun altro, da teatri più remoti aveva cominciato ad osservare con preoccupazione lo sviluppo della strategia confederata nei primi mesi e ne aveva poi tratto acutissime conclusioni, oggi pressoché misconosciute: il generale Braxton Bragg.
Nel febbraio del 1862, mentre si trovava in Alabama alla guida del Dipartimento dell’Alabama e del West Florida, presa carta e penna aveva scritto una lunga lettere al Segretario alla Guerra Judah P. Benjamin. “I nostri mezzi e risorse son troppo sparpagliate”; e aggiungeva, “la protezione delle persone e proprietà, in quanto tali, deve essere abbandonata e tutti i nostri mezzi rivolti al Governo e alla causa.  Solo i punti strategici di valore devono essere tenuti. Tutte le risorse non necessarie a tenere questi, dovrebbero essere concentrati per un forte attacco contro il nemico, laddove noi si possa assalirlo con migliori opportunità” (36). Bragg si spingeva sino a raccomandare di abbandonare tutto il territorio lungo il Golfo del Messico eccezion fatta per Pensacola, Mobile e New Orleans, così come gli interi stati del Texas e della Florida. Certo, egli continuava, così facendo una parte dei nostri possedimenti cadrà nelle mani del nemico. “Ma - proseguiva Bragg – per tal via la nostra forza militare non dovrebbe esserne diminuita, mentre il nemico dovrebbe essere indebolito dalla dispersione. Potremo così batterlo separatamente, invece del contrario. Lo stesso ragionamento si applica alle coste dell’Atlantico. Nel Missouri [questo stesso schema] può essere applicato in grande stile”. In questo notevolissimo documento Bragg, sembra già anticipare, in parte, la nuova strategia che sarà adottata da Davis nella primavera del 1862. Ancora una volta risulta evidente l’influenza degli scritti del Jomini e dell’insegnamento di Mahan: anche se egli si era diplomato a West Point nel 1837 e quindi solo marginalmente era stato influenzato da quest’ultimo, le dottrine mahaniane per la generazione del periodo costituivano l’alfa e l’omega del pensiero militare. Concentrazione delle forze ed assunzione dell’offensiva, dunque. Ma qui v’è qualcosa di più e di differente rispetto alla prospettiva un po’ astratta e manualistica di Beauregard: un piano strategico di natura generale per l’intero teatro di operazioni occidentale (e, ma solo in parte, dell’est) con una precisa e abilissima considerazione  e suddivisione delle zone vitali per la Confederazione rispetto a quelle di marginale importanza, da cui trarsi truppe, senza però difenderle. Non solo. Bragg sembra comprendere, in parte, anche ciò che era sfuggito a Beauregard. E cioè, il carattere politico e nazionalistico che doveva assumere il conflitto. Per quanto poi ad esso non seguisse all’atto pratico alcuno specifico consiglio (a differenza di Lee, come vedremo) nondimeno sullo sfondo la comprensione della dinamica che la guerra dovesse assumere è evidente, così come evidente appare l’ostilità di Bragg per ogni localismo o regionalismo. Insomma, egli era riuscito, con notevole acume strategico (di cui certo non difettava) a riassumere in poche, brevi, ma chiarissime parole, i compiti e le linee guida da adottarsi. Altri erano i difetti di Bragg, anche se la fama di modesto generale e grande attaccabrighe con cui è stato per anni bollato da una parte della storiografia, sembra oggi lasciar spazio ad un più equilibrato giudizio, specie considerando le difficoltà di natura interpersonale in cui egli si trovò ad operare, lasciato peraltro del tutto solo dal Governo confederato, allorquando fu chiamato a guidare l’Armata del Tennessee. Ma di ciò, più oltre.
La  “grande” strategia di Joseph Eggleston Johnston si poneva agli antipodi di quelle esaminate sin d’ora. Il generale virginiano aveva sin da subito individuato nell’enorme spazio e territorio a disposizione della Confederazione, un grande vantaggio da sfruttare. Nel corso di una conversazione avvenuta nel dicembre del 1861 a Centreville (alla presenza dei generali Ewell e G.W. Smith e dell’ufficiale di stato maggiore di Ewell, George Campbell Brown che prese nota della discussione), Johnston aveva osservato che “la vera politica della Confederazione era [quella] di salvare [la vita degli] uomini e combattere solo in condizioni vantaggiose – poiché possediamo territorio in abbondanza, ma non truppe da sprecare" (37). Il Sud, dunque, poteva cedere ampie porzioni di terreno senza risentirne in modo significativo, guadagnando tempo e risparmiando le proprie esigue forze per poi attendere il momento più opportuno per colpire. Al contrario, gli invasori unionisti si sarebbero necessariamente logorati; per un verso, infatti, essi avrebbero dovuto allungare le proprie linee di comunicazione, esponendosi così ad attacchi del nemico sulle loro retrovie; per un altro, dovendo far fronte a un enorme dispendio di energie e mezzi sotto il profilo logistico per rifornire il fronte, sarebbero stati costretti a retrocedere; per un altro ancora, la necessità di occupare i territori occupati mano a mano, avrebbe costretto il comando unionista a disperdere le proprie forze, vanificando il teorico vantaggio numerico di cui esso disponeva. In più, sfruttando le linee interne, i confederati avrebbero sempre avuto dalla loro, la possibilità di concentrare le proprie forze nei punti deboli dell’avversario, battendone isolatamente le colonne di invasione per mezzo di contrattacchi, purché si sapesse cogliere l’occasione. Perdere spazio per poi riconquistarlo successivamente- così pareva a lui - si sarebbe rivelata una strategia medio tempore vincente; alla lunga il logorio del nemico avrebbe prodotto il resto: privi di vittorie sul campo, dispersi in zone di secondaria importanza o comunque bloccati in territorio ostile, gli unionisti (e con loro il morale della popolazione e dell’opinione pubblica nordista) avrebbero ceduto mano a mano sino a giungere ad un compromesso. Era essenziale pertanto evitare scontri con il nemico in campo aperto, a meno che le condizioni non si presentassero straordinariamente favorevoli.
Un disegno in definitiva solo apparentemente “fabiano”: per quanto poi Johnston, abbia dimostrato concretamente nel corso del conflitto di optare per una strategia di indecisione ed arretramento continuo, sorprendentemente la prospettiva di una battaglia di annientamento, decisiva e definitiva, costituiva in realtà il suo scopo ultimo.
E, se come visto, le concezioni strategiche degli ufficiali americani, nascevano principalmente dai loro studi e dai loro approcci teorico-accademici in materia, oltre che dalla loro indole, le idee di Johnston non potevano non riflettere la sua personale esperienza in materia. Pur conoscendo ampiamente il pensiero di Jomini e di Mahan, egli si era formato sotto gli auspici di O’Connor e aveva derivato le proprie concezioni dalla summa delle riflessioni tardo-settecentesche sull’arte della guerra, piuttosto che su quelle maturate in età napoleonica e proprie del nuovo secolo. Non sorprende, pertanto, che, interrogato su quali letture egli consigliasse in materia di strategia e tattica, Johnston avesse esplicitamente indicato, proprio alla vigilia dello scoppio della guerra civile americana, tre libretti compilati da Federico il Grande come punto di riferimento essenziale per comprendere le idee  guida della tecnica militare per gli ufficiali (38). Nella prospettiva fredericiana, che già anticipava in parte quella jominiana (pur senza ancora richiamare ed elaborare esplicitamente la teoria delle linee interne), l’enfasi veniva posta sulla concentrazione delle armate. Con una basilare differenza, però, rispetto a Jomini. Ossia l’importanza attribuita alla “posizione”, intesa come scelta di un terreno favorevole per attendere e combattere, piuttosto che al "movimento". Il che è naturale, ove si rammenti le difficoltà logistiche di una guerra dinamica nell’epoca dei lumi (39). Non, però, si noti bene, una posizione trincerata fissa in centri strategici come città o frontiere, a guisa di guarnigioni disposte en cordon (soluzione che Johnston non mancò di criticare a più riprese, quando adottata dalla Confederazione), ma piuttosto la ricerca di un terreno ideale ove sconfiggere in via definitiva le truppe nemiche, applicando la famosa manovra obliqua. Prodromica e necessaria condizione per un simile risultato era, inutile quasi sottolinearlo, la concentrazione delle forze  : “io sono un nemico della troppa dispersione delle forze” affermava già nel gennaio 1862 (40); e, più tardi, nel corso della campagna di Vicksburg, scriverà “l’esercito invasore non può essere battuto senza la concentrazione delle forze Confederate” (41). Dunque sul piano più strettamente strategico operazionale, l’adesione incondizionata alle teorie settecentesche che consigliavano, date anche le difficoltà di approvvigionamento degli eserciti dell’epoca, di operare per masse di forza quanto più compatte sulla difensiva quando si fosse in condizioni di inferiorità numerica, per Johnston significava concepire l’arte della guerra secondo schemi un po’ obsoleti, basati più sulla scelta della posizione geografica naturale più forte (un fiume, una montagna) per attendervi il nemico, piuttosto che sull’elaborazione della manovra operazionale basata sulla velocità, propria del pensiero militare successivo (e in particolare di età napoleonica, che quegli schemi aveva spazzato via), che consigliava, invece, di attuare una dispersione apparente delle unità, per poi ricongiungerle improvvisamente sul campo di battaglia.
Proprio la costante, quasi ossessiva, ricerca del terreno ideale e della battaglia perfetta, spiegano in gran parte il comportamento di Johnston e i suoi gravi limiti come comandante operazionale e come tattico. Insomma, un po’ come occorso a George B. McClellan, accadeva poi che egli desistesse dall’intraprendere qualsiasi iniziativa che non rispecchiasse quello schema teorico che aveva letto e fatto suo da Federico il Grande, limitandosi ad atteggiamenti passivi e lasciando integralmente al nemico l’iniziativa, con effetti deleteri sulle fortune della Confederazione. Dotato di un eccezionale e forse impareggiabile senso della posizione, accadeva però che nella realtà quelle condizioni ideali non si verificassero, oppure che il nemico evitasse di seguire il manuale ovvero lo superasse in astuzia, aggirandolo costantemente ed astenendosi dall’ingaggiar battaglia, avendone compreso la strategia, come accadde a Sherman in Georgia. Sopra ogni cosa, l’introduzione di nuove tecnologie, quali la ferrovia, il telegrafo, le industrie e la corazzata avevano mutato il volto della guerra: le limitazioni ai rapidi movimenti e alla guerra a grandi distanze dalle basi operative, tipiche dell’età del settecento, erano state superate dall’era dell’industria e delle invenzioni; questo poi era specialmente vero per gli unionisti che erano stati capaci nel corso del tempo di approntare una prodigiosa macchina logistica. Concepire una guerra di posizione e di terreno, come ad esempio Johnston adottò nella campagna di Atlanta, risultò esattamente lo stesso errore in cui sarebbe incorso l’alto comando anglo-francese nella campagna di Francia del 1940, incapace come fu di capire che l’aviazione e il carro armato avevano rivoluzionato ogni passato schema. A ciò si aggiunga che egli era dotato di un’indole estremamente prudente e di una straordinaria suscettibilità per la propria reputazione - di cui si è già detto, in gran parte, altrove - per rischiarla in iniziative temerarie (42). In fin dei conti, proprio la visione strettamente militare di ogni problematica di natura strategica da parte di Johnston, al di là dell’esistenza di contrasti di natura personale e atteggiamenti di aperta opposizione, sono alla base del difficile rapporto con Jefferson Davis; Johnston dava una risposta “unilaterale” basata sulla sua concezione, senza rendersi conto che la Confederazione, aveva estremo bisogno di soluzioni che prescindessero da calcoli e schemi manualistici. Una nazione neonata, ancora incerta sul proprio destino, minata all’interno da contrasti di natura politica e lacerata da uno strisciante localismo, richiedeva altre risposte. Ciò che sfuggiva completamente a Johnston, come a molti suoi pari, era il carattere altamente popolare e democratico della nazione sudista: il volere popolare, i suoi bisogni, l’esistenza di una forte opinione pubblica, sia colta che di massa, richiedevano iniziative e un atteggiamento aggressivo, pena una progressiva perdita di fiducia, di morale, di forza di volontà da parte del popolo sudista e che alla lunga si verificarono, decretando, come concausa, la fine del sogno di una Confederazione libera e indipendente. Un lusso che un Federico il Grande si poteva permettere, essendo egli stesso il vertice politico della nazione, ma Johnston, no.
Al contrario, non v’è alcun dubbio che, unico fra gli alti ufficiali della Confederazione, Robert Edward Lee, abbia compreso tale fondamentale aspetto della guerra, come diremo a breve. Per quanto si sia tentati di ingabbiare le idee strategiche di Lee riducendole ad una mera rilettura, seppure di alto profilo, degli schemi napoleonici, con la ricerca continua dell’offensiva strategica operazionale quale linea guida accompagnata però dall’assenza di una visione d’insieme dei teatri e più in generale di una strategia globale, un’attenta lettura della documentazione a disposizione porta chi scrive, a conclusioni assai differenti. In effetti, parte della storiografia, ha dipinto il condottiero virginiano come una sorta di "anacronismo" vivente, dotato indubbiamente di eccellenti qualità militari, ma che poco o nulla comprese dell’aspetto politico del conflitto, sostanzialmente disinteressato a ciò che avveniva al di fuori del teatro di operazioni della Virginia e tutto teso alla ricerca di una vittoria sul campo di battaglia decisiva: cioè ad una soluzione prettamente militare del conflitto con il Nord, mediante distruzione delle sue armate (43).
Che Lee abbia abbracciato la causa confederata dopo molte riflessioni e dubbi su quello che fosse il proprio dovere e sulla bontà delle ragioni del Sud, appare indubbio, così come è certo che all’atto di rassegnare le dimissioni nel 1861 dall’esercito federale, egli sguainò la spada, come scrisse lui stesso, principalmente - anche se non esclusivamente - per difendere il suo stato natale, la Virginia. In questo Lee non era certo isolato: molti altri ufficiali o semplici soldati si arruolarono con la convinzione di dover difendere, anzitutto, la propria casa o famiglia, contea, regione o stato di origine, non la nazione confederata, entità ancora astratta. Ma al pari loro, ben presto Lee maturò una visione nazionalistica, divenendo un ardente sostenitore della Confederazione, cui ogni altro potere o istituzione doveva piegarsi per il bene comune.  Già nel dicembre del 1861, così scriveva al politico del South Carolina, Andrew McGrath: “Gli Stati Confederati [d’America] possiedono ora un grande fine in vista, la questione del successo della guerra e [della] indipendenza. Ogni [altra] cosa deve essere messa in disparte per il suo raggiungimento” ammonendo circa gli effetti deleteri conseguenti all’esistenza di comandi separati o unità particolari, propri del regionalismo sudista (44). Da subito favorevole ad un’ampia forma di coscrizione obbligatoria, Lee aveva incaricato sin dall’inverno 1861, precorrendo così i tempi, il suo aiutante Charles Marshall di studiare e approntare una bozza di legge per porre tutti gli uomini atti a combattere, sotto il diretto controllo del Governo confederato con ferma minima di un anno, lamentandosi, più volte, come troppe norme fossero state approvate per esentare dal servizio militare, con ogni genere di scusa, molte categorie di soggetti (45). Persino sovrabbondante per essere esaminata qui nel dettaglio, la corrispondenza diretta ai governatori della Confederazione, specie del North Carolina e della Virginia. In essa Lee ricordava costantemente come la difesa della nazione confederata venisse prima e al di sopra di ogni altro bene e come ogni forza, ogni risorsa, ogni uomo dovessero essere posti a disposizione del governo centrale per battere l’invasore, lamentandosi più volte con le autorità del South Carolina e della Georgia per la loro miopia nel sottrarre preziosi rinforzi per futili scopi come l’ingrossamento della milizia o delle unità locali (46). Per un uomo che sino allo scoppio delle ostilità aveva mostrato di credere nella teoria dei diritti locali, si trattava di uno straordinario renvirenment. Gli è che il Lee della primavera del 1861, non era il medesimo uomo che guidò le armate confederate sui gloriosi campi di Richmond e Fredericksburg, di Chancellorsville o Gettysburg. Egli era divenuto un fervente nazionalista, un confederato sin nell’anima, cui si poteva domandare e che domandava ogni sacrificio per la causa del Governo. 
Né Lee appariva contrario ad una completa centralizzazione dell’apparato militare confederato. Anzi. Scrivendo al figlio maggiore nel febbraio 1863, egli additava il nemico come modello da seguire non essendosi fatto scrupolo il Congresso federale di approvare una serie di leggi che trasferivano direttamente nelle mani di Lincoln una sorta di potere assoluto circa reclutamento degli uomini e accentramento di ogni risorsa economica per la guerra (47). Apertis verbis, Lee qualificava come “male assoluto” il potere lasciato ai governatori e agli Stati, domandando che il governo confederato avocasse a sé ogni bene e risorsa, ricorrendo, se utile, anche a impopolari forme di requisizione dei beni privati o assumendo il controllo diretto delle tratte ferroviarie e spingendosi sino a richiedere che l’uso del trasporto su binari fosse destinato alle sole esigenze militari “quand’anche ciò rendesse necessario sospendere tutti i viaggi privati per lavoro o per piacere” (48). Nel corso della guerra, a tal punto egli divenne un fervente credente del superiore benessere della Confederazione, da giungere persino a perorare l’idea di liberare e armare la popolazione afroamericana schiava, per arruolarla nelle armate sudiste: lui che, aveva sempre difeso l’istituzione della schiavitù, baluardo di quella che egli credeva costituisse, a torto o a ragione, uno dei fondamenti dell’indipendenza della popolazione meridionale e dei singoli individui, ora appariva disposto a distruggere l’essenza stessa della società sudista, pur di prevalere sul nemico. Se alfine, ma troppo tardi, il Congresso confederato, si convinse a seguire tale proposta, fu proprio grazie alla straordinaria influenza che su di esso, ebbe Lee (49).
Quanto poi ad una pretesa miope visione di Lee circa gli altri teatri di guerra che non fossero la Virginia, tale opinione, ad un’analisi più seria, appare quanto mai inveritiera. Gli è che per quanto Lee ritenesse le azioni belliche all’ovest, se non altrettanto importanti, quanto meno essenziali per le sorti del conflitto e monitorasse costantemente il loro andamento, non astenendosi dal consigliare di intraprendere l’offensiva ogni qualvolta fosse possibile, egli considerava il principale teatro di operazioni quello settentrionale (50).
E come dargli torto? Là, in Virginia, a breve, troppo breve, distanza dalla frontiera con il nemico, si trovava Richmond, capitale della nazione confederata e  sede della principale, se non unica, industria pesante bellica di cui disponesse il Sud: le Tredegar Iron Works, senza il cui contributo, quantomeno da principio, ogni sforzo sarebbe stato vano (51). Con ogni probabilità, caduta Richmond nei primi anni di guerra, se non altro sul piano psicologico e morale, sarebbe crollata l’intera Confederazione. Sulla patria di Washington, erano puntati gli occhi della maggior parte degli osservatori stranieri: ogni vittoria di Lee, avvicinava sempre di più Inghilterra e Francia al riconoscimento della neonata nazione e con esso un aiuto dal Vecchio Continente. Ovvero, quantomeno così sperava la leadership politica confederata; allorquando, nell’autunno 1862, Lee invase il Maryland, vi fu un momento in cui la chimera di un intervento nel conflitto da parte delle nazioni europee parve divenire realtà. E se esse mai pensarono davvero ad un’intromissione nel conflitto americano (circostanza che era assai improbabile, in realtà, e che Lee stesso con grande acume, riteneva del tutto remota, se non addirittura da scartare a priori) fu proprio grazie alle straordinarie imprese del condottiero virginiano.
Nell’Old Dominion si concentrava l’attenzione dell’opinione pubblica unionista: ogni sconfitta subita dai settentrionali, faceva lievitare il numero di adesioni al partito della pace e rinforzava le fila di coloro che chiedevano un’immediata cessazione delle ostilità con una soluzione politica della vicenda. Ad ogni dèbacle, il morale della popolazione settentrionale sembrava crollare, dando così sfogo alla voce di chi pensava che, in fondo, non valesse poi tanto la pena di perdere uomini contro un nemico che sembrava invincibile. Laggiù, si trovava il maggior esercito avversario per numero di uomini e mezzi a disposizione: l’Armata del Potomac. Lincoln stesso, il nemico medesimo dunque, avevano scelto come teatro principale delle operazioni, la Virginia. Non poteva essere altrimenti, d’altro canto: proprio negli stati che si trovavano nel Settentrione, di fronte all’ Old Dominion, era massimamente concentrata la popolazione unionista e il cuore stesso dell’economia nordista. Mettere in pericolo quella zona di territorio, significava esporre l’intero Nord a un pericolo terribile.
Colà, era posizionato un formidabile strumento di guerra, l’Armata della Virginia Settentrionale, che proprio grazie a Lee era divenuto in poco tempo uno degli eserciti più disciplinati, combattivi e letali che la storia dell’arte militare possa annoverare, studiare, o, più semplicemente, ammirare. Per quanto oggi noi si possa discutere all’infinito quale dei due teatri di operazione fosse più importante e in quale di essi maturò la sconfitta, all’epoca era ben chiara a tutti, una circostanza: in Virginia si trovava il nemico principale da sconfiggere giacché Lee e il suo leggendario esercito erano unanimemente considerati invincibili o quasi (52). Una qualsiasi opzione che non prevedesse come obiettivo principale, la distruzione dell’Armata della Virginia Settentrionale non era neppure presa in considerazione dai vertici militari unionisti. Non a caso il generale Grant, una volta nominato comandante in capo dell’esercito federale, comprese, pur con qualche esitazione iniziale, che si doveva impegnare in prima persona per raggiungere tale scopo e che comunque quello si richiedeva a lui.
Sul teatro di guerra virginiano, sopra ogni altra cosa, era riposta la speranza del popolo sudista di raggiungere l’agognata indipendenza e libertà. Come è stato acutamente osservato, a partire dal 1863, ma forse ancor prima, dopo le grandiose vittorie di Fredericksburg e Chancellorsville (rispettivamente, dicembre 1862 e maggio 1863), Lee e la sua armata erano divenuti il principale simbolo per la gente comune e della stessa pubblica opinione: non più Davis o il Governo, verso il quale si andavano anzi esacerbando le critiche e i malumori, ma l’Armata della Virginia Settentrionale e il suo condottiero; un po’ come furono, prima di lui, George Washington e l’Armata Continentale, per l’America intera (53). A centinaia se non migliaia giungevano lettere di ringraziamento, di speranza, di sostegno firmate da cittadini comuni: e tutte si indirizzavano con deferenza, commozione e omaggio a Lee. Se il morale confederato non tracollò fino alla presa di Richmond e alla resa dell’Armata della Virginia Settentrionale, fu proprio, ancora una volta, grazie al grande condottiero virginiano. In sostanza ultima gli è che, Lee vedeva più chiaramente di altri ciò che era palese: ossia come il teatro di operazioni orientale, pur essendo parte di un intero più complesso, costituisse il principale punto di riferimento di questo composito globale, così come il cuore o il cervello lo sono per il corpo umano e la vita stessa. Pertanto egli credeva, del tutto a ragione, che in Virginia dovessero concentrarsi gli sforzi e le energie: ad una singola vittoria tattica su quel fronte sarebbe seguito inevitabilmente un alleggerimento su altri teatri di operazione, mentre una serie continua di sconfitte unioniste, cosi sperava, avrebbero condotto il Nord a sedersi a tavolino per discutere la pace con la Confederazione.
Lee era perfettamente consapevole dell’enorme disparità in numero di uomini tra le due sezioni, delle grande potenzialità dell’industria nordista e dell’inferiorità del primitivo tessuto manifatturiero confederato: con gli anni il divario sarebbe inevitabilmente aumentato, con nuove invenzioni e tecniche che avrebbero reso sempre più importante il contributo del “fronte interno”della produzione di armi, vestiti e beni. Una partita che, secondo lui, era già persa in partenza per il Sud. Tanto più che il dominio dei mari unionista avrebbe condotto senza dubbio allo strangolamento della Confederazione: con l’occupazione progressiva dei porti sudisti, anche quell’ultima, quasi disperata, linea di rifornimento del Sud sarebbe svanita. Dopo le vittorie di Fredericksburg (dicembre 1862) e Chancellorsville (maggio 1863) per quanto egli avesse comandato con impareggiabile sagacia militare i suoi uomini, Lee confesserà di sentirsi depresso più che mai circa le sorti della guerra. Disfatte le armate di Burnside e Hooker, il governo unionista, riordinate le schiere, immessi nuovi organici, gliene avrebbero lanciata contro un’altra ancora più forte, mentre i ranghi delle sue fila si assottigliavano, senza poter essere rimpiazzati (54). Il tempo, dunque, lavorava a favore dell’Unione e l’unica via per sconfiggere il Nord era quello di batterlo ripetutamente sino a fiaccarne la volontà, senza attendere che potesse riprendersi da una precedente sconfitta. Non si sarebbe mai potuta annientare sul piano puramente bellico l'Unione, né pensare a conquistarla manu militari. Questo era impossibile e Lee seppe comprenderlo più di ogni altro. Ma si potevano demoralizzare, pensava, il popolo e l’opinione pubblica settentrionali mostrandogli che il gioco non valeva la candela, per mezzo di audaci offensive portare la guerra sul suolo unionista e lì ripagare della stessa moneta il nemico, facendogli assaggiare le medesime sofferenze che la gente a Sud del Potomac aveva provato. L’immane scontro tra il Meridione e il Nord era questione di volontà di combattere, di morale, proprio perché si trattava non di un conflitto tra due nazioni indipendenti per la conquista di un qualche territorio conteso, ma di una guerra civile: solo su quel piano si poteva partire da posizione di parità, solo su quel terreno la Confederazione poteva sperare di prevalere. E ciò tanto più perché a differenza dei teatri europei, la società americana era democratica e libera di esprimere il proprio assenso o dissenso per mezzo del voto popolare o di manifestazioni pubbliche. Mentre in Europa la conduzione di una guerra raramente aveva un impatto politico interno, nel Nuovo Continente essa era discussa, analizzata, approvata o rigettata dall'uomo di strada: e quell'uomo faceva parte di un'opinione pubblica o di partiti che avevano un peso decisivo sui vertici politici. Nella primavera del 1863, prima ancora di disporre a suo piacimento dell’armata nemica a Chancellorsville, Lee vedeva già più lontano, “se [riusciremo ad ottenere] un successo quest’anno, il prossimo autunno si produrrà un grande cambiamento nella pubblica opinione a Nord. I Repubblicani saranno annientati e io credo che gli amici della pace diverranno così forti che la prossima amministrazione dovrà partire da questo presupposto” (55).  E ancor più chiaramente, scrivendo al figlio Custis Lee, egli ammoniva che “niente ora può fermare durante l’attuale amministrazione [Lincoln] la più devastante guerra che sia mai stata sperimentata, eccetto [che] una rivoluzione nel loro stesso popolo.  Niente può produrre una rivoluzione eccetto [che] una serie sistematica di successi da nostra parte”(56). Con queste parole, ribadite e ripetute in altre occasioni, Lee, solo, mostrava, di aver compreso il carattere rivoluzionario e squisitamente politico che aveva assunto il conflitto civile americano fornendo una risposta tridimensionale alle problematiche in cui si dibatteva la Confederazione. Altro che generale legato alle vecchie concezioni settecentesche o ottocentesche dell’arte della guerra. Altro che condottiero succube della mentalità napoleonica, ancora schiavo del feticcio della battaglia decisiva. Neppure un grande stratega come Grant, considerato uno dei generali più moderni della storia, era giunto a tanto. Lee aveva capito, precorrendo i tempi di molti anni, che una guerra tra fratelli nemici poteva essere vinta solo imponendo la propria risolutezza e determinazione all’altro, fiaccandone la volontà di combattere e di resistere, mostrando al nemico che qualunque sacrificio, qualsiasi prezzo avrebbe richiesto il conflitto, il Sud non avrebbe avuto timore a pagarlo: di più, lo avrebbe a sua volta imposto al nemico, provocandogli una sorta di trauma, battendolo sul suo stesso suolo. Così facendo, egli anticipava il motto clausewitziano secondo cui sul campo di battaglia non sono solo due armate a confrontarsi, ma "due stati, due popoli, due nazioni": e la strategia di Lee, basata principalmente sul coraggio morale e sulla forza di volontà, si sposava perfettamente con i desideri e bisogni della popolazione meridionale. Chi avesse cura di studiare la corrispondenza e gli scritti di Lee, specialmente quelli diretti a Davis, non potrà fare a meno di apprezzare quanto il grande virginiano avesse compreso l’importanza di far intendere all’intera nazione confederata, alla sua popolazione, alla sua patria come anzitutto occorresse che ogni sforzo, anche il più  semplice e modesto, fosse rivolto verso il bene comune ultimo: il sostentamento delle armate confederate che da sole potevano garantire come il sogno irredentista di libertà e indipendenza divenisse realtà. Al tempo stesso, Lee sapeva che solo una strategia basata sull’offensiva avrebbe riscosso entusiasmo nel popolo e nell’opinione pubblica e ne avrebbe destato la forza di volontà. Così facendo, egli si inseriva a buon diritto nel Pantheon, assai ristretto, dei grandi condottieri (57).      
Va da sé che per sperare di piegare la volontà del nemico occorrevano due elementi fondamentali: l’iniziativa e il rischio. Attendere passivamente gli eventi o retrocedere avrebbe significato consegnare interamente nelle mani dei settentrionali il destino della Confederazione: costoro potevano scegliere di colpire dove, come e quando a loro piacesse. D’altro canto, poiché sul fronte orientale il cuore amministrativo, politico, strategico ed economico si trovava a poca distanza dalla frontiera, arretrare per cedere spazio, guadagnando tempo, avrebbe solo condotto il nemico davanti a Richmond: a quel punto la guerra si sarebbe trasformata in assedio, senza alcuna speranza di vittoria. Del resto se c’è una cosa che aveva mostrato il conflitto civile americano (al pari di ogni evento bellico europeo, dal 1648 sino a metà dell'ottocento) checché se ne dica, è che ogni operazione di difesa ad oltranza, si era conclusa nel medesimo modo: con l’assedio di una città o cattura di una guarnigione. Fort Henry e Donelson, la ritirata di Johnston in Virginia nel 1862, e, più tardi, la caduta di Vicksburg, Chattanooga, la campagna di Atlanta, lo stesso assedio di Richmond e Petersburg, mostravano quale fosse il destino che attendeva chi si difendeva o indietreggiava: la cattura di intere armate, ovvero la fine del vantaggio teorico di combattere sulla difensiva, senza peraltro infliggere alcuna perdita significativa al nemico. In effetti, una volta costretti a difendere determinati punti strategici, anche l’opzione tattica della difesa, con i suoi vantaggi, veniva meno: giocoforza i meridionali finivano con l’essere costretti ad attaccare i trinceramenti avversari, con ogni conseguente rischio. No, pensava Lee, occorreva contrastare il nemico laddove esso si trovasse, senza cedere neppure un metro di terreno ove possibile, anche a costo di rischi terribili. Meglio ancora, prendere o strappare l’iniziativa all’avversario di modo che quand’anche in inferiorità numerica, fosse possibile dividere e riunire le forze solo sul campo di battaglia, senza dare mai precisi punti di riferimento al nemico se non nel momento dello scontro con esso. Questa è l’essenza vera del pensiero strategico di Lee. Per lui, non era tanto questione di offesa o difesa strategica, quanto di iniziativa, mobilità e audacia. Lee poteva persino accettare di esercitare una strategia puramente difensiva, purché fondata sulla rapidità e sulla concentrazione immediata delle forze sul punto di sforzo principale del nemico, come fece nel tardo autunno del 1862, dopo la sanguinosa campagna del Maryland. Vista la superiorità numerica unionista, egli scrisse al generale Thomas “Stonewall” Jackson, era “preferibile cercare di beffare i suoi disegni [del nemico] manovrando” evitando di confrontarsi direttamente e “colpirlo solo quando vantaggioso”: ciò che condurrà al trionfo di Fredericksburg, troppo frettolosamente archiviato da qualcuno come un’offensiva unionista a testa bassa contro le posizioni ben trincerate dei confederati, invece di una splendida intuizione e manovra difensiva di Lee (58). Proprio operando in questo modo, nel 1864, allorquando Grant scatenò la sua campagna offensiva in Virginia, l’acume strategico-operazionale di Lee toccherà quello che forse è stato il suo culmine: divinando e anticipando continuamente le mosse dell’avversario, anche a  costo di prendere rischi incredibili e trovarsi spesso sull’orlo della disfatta, per oltre un mese combatterà alla pari con un avversario che lo sovrastava in un rapporto di forze di 2 a 1, infliggendo ad esso quasi il doppio delle perdite. In definitiva la sua “grande” strategia, poteva essere intesa anche come strettamente difensiva, sebbene dal punto di vista operazionale e tattico egli assunse più di sovente l’offensiva. Questa visione, oltre a sposarsi con i bisogni, gli scopi e il carattere più profondo della società confederata, come detto sopra, aderiva in gran parte anche alle idee politico-strategiche di Davis. Il concetto stesso di non cedere alcuna porzione di terreno se non prima di averlo difesa ad oltranza e la ricerca continua dell'iniziativa, si inserivano perfettamente nella visione del Presidente confederato, di difesa, controllo e presenza sul territorio meridionale delle armate dislocate qua e là. Questa sintonia di fondo, spiega perché, forse ancor più delle vittorie sul campo, Lee e Davis riuscirono a collaborare in modo egregio. Certo, Lee si premurava di corrispondere con frequenza con Davis, in modo che il Presidente fosse sempre adeguatamente informato dei piani del generale virginiano. Ma Davis, soprattutto, era alla ricerca di ufficiali che non avessero paura ad affrontare il nemico sul campo di battaglia, proprio per mostrare la tenacia e coraggio della Confederazione e l'attaccamento delle armate al territorio e alla popolazione entro i suoi confini; Lee, era quel tipo di uomo. Davis, tuttavia, privilegiava un disegno strategico più statico-difensivo, maggiormente "conservativo" e decentrato, con rischi limitati. Lee, era maggiormente propenso all'iniziativa e all'offensiva, non disdegnando di invadere il territorio nemico anche attraverso la concentrazione delle forze disperse sul territorio. Come vedremo, proprio questa differenza, sarà alla base delle scelte strategiche che precedettero la campagna di Gettysburg. Ci sia permessa, infine, un'ultima osservazione su Lee e in merito alla sua presunta ossessione per la pura e semplice offensiva strategico-tattica di stampo napoleonico, opinione che pare largamente infondata. Anche se il discorso ci condurrebbe lontano dal nostro obiettivo, pochi cenni possono essere fatti. Senza dubbio alcuno il pensiero di Napoleone influenzò Lee sin dai tempi del corso di studi a West Point e lo condusse ad uno studio approfondito degli originali francesi (59). E indiscutibilmente egli applicò i due cardini dell’arte militare del grande condottiero corso alla perfezione. Vale a dire, l’idea della “posizione centrale” e della divisione dell’armata in distinti corpi. Nella campagna d’Italia (1796-1800) specialmente, ma anche nel corso delle leggendarie campagne di Ulma (1805) o Jena (1806) contro Austria e Prussia  rispettivamente e ancora nella campagna di Waterloo, Napoleone aveva mostrato che l’azione per linee interne, partendo dalla famosa “posizione centrale”, poteva portare – se ben concepita e sviluppata – alla concentrazione delle forze su di un solo nemico, tenendo a bada con un contingente più modesto, l’altro opponente. Con la divisione delle forze nemiche, che avrebbero dovuto operare concentricamente per linee esterne e quindi più lentamente, Napoleone riusciva poi a batterle separatamente; schema perfettamente riuscito a Lee nella campagna che aveva condotto alla seconda battaglia di Manassas o al trionfo di Chancellorsville. O ancora più audacemente, attraverso la manovra sur les dérrieres (o sulle retrovie del nemico), che, attraverso un ampio movimento strategico avvolgente, costringeva l'avversario a venire fuori dalle proprie linee per dare battaglia alle condizioni imposte, come nelle intenzioni di Lee durante la campagna dei Sette giorni. L’altro fondamento della  strategia napoleonica era, come è noto, la divisione della Grande Armée in diversi corpi d’armata - tutti tra loro indipendenti ed autonomi – per confondere il nemico sulle proprie intenzioni, salvo poi la loro fulminea e inaspettata riunione sul campo di battaglia: divide et impera. Altro cardine che Lee applicherà magistralmente nella campagna di Antietam e di Gettysburg: e forse, non a caso, la divisione in tre corpi d’armata avvenuta nella primavera-estate 1863 (idea a cui Lee pensava da tempo) nasceva proprio dalla convinzione che solo un maggior frazionamento avrebbe condotto a migliori risultati. Ciò detto, occorre però sottolineare che Napoleone non aveva inventato nulla, rifacendosi a schemi e strategie che già i grandi condottieri dell’antichità avevano elaborato e applicato. Ed esattamente come loro (e come Napoleone), Lee aveva fatto sua la vera lezione del passato: la capacità di adattarsi e saper ribaltare le situazioni più difficili, in altrettante vittorie. Per questo anche, egli deve essere considerato uno tra i più grandi Capitani della storia.
Queste dunque le opzioni per risolvere il grande dilemma di fondo in cui si dibatteva la Confederazione: prendere l’iniziativa con decisione, attaccando, oppure attendere l’offensiva del nemico, difendendosi. In mezzo, il compromesso di Davis. Si tratta, ovvio di un quadro del tutto ideale ed accademico: perché, poi, in definitiva, qualsiasi fosse stata la scelta strategica intrapresa, occorreva che vi fossero uomini adatti ad eseguirla sul piano concreto, operazionale e tattico. E sotto questo punto di vista, la Confederazione, per quanto parte degli studiosi abbia creduto che tutto suo fosse il vantaggio sul piano della tradizione e dell’educazione militare, anche grazie all’esistenza di numerosi istituti e scuole paramilitari presenti nel Mezzogiorno (come il Virginia Military Institute, il Georgia Military Institute o il South Carolina Military Academy, a titolo puramente esemplificativo), scontò in realtà una sconcertante mancanza di adeguati uomini proprio laddove ve ne sarebbe stato più bisogno: non nel quadro ufficiali medio-alti, ma ai vertici della piramide gerarchica. Al di là di Lee, resta il fatto che nessun altro condottiero confederato appariva in grado di contrastare gli unionisti. Anche in questo caso, si può discutere a lungo circa meriti o colpe dei singoli e dei loro subordinati: ma il fatto rimane. E fu una circostanza precisa, chiara e incontrovertibile. In fondo, aveva ragione Jefferson Davis allorquando, proprio poco prima dell’inizio della campagna di Gettysburg, scrisse al fratello Joseph paragonando i successi di Lee alle sconfitte confederate sul teatro occidentale e affermando che “un Generale nel senso completo della parola è un prodotto raro, difficilmente più di uno può essere atteso in una generazione, ma in questa terribile guerra nella quale siamo coinvolti, ce ne sarebbe bisogno di una mezza dozzina” (60).  Sfortunatamente, la Confederazione ne possedeva uno solo.

Note alla parte 2
(32) T.H. Williams, “The Military Leadership of North and South” in D.H. Donald (a cura di), Why the North Won the Civil War, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1960, p. 26.  Le principali opere di Jomini sono: H.Jomini, Traité de grande tactique, ou, Relation de la guerre de sept ans, extraite de Tempelhof, commentée at comparée aux principales opérations de la derniére guerre; avec un recueil des maximes les plus important de l'art militaire, justifiées par ces différents évenéments, Paris: Giguet et Michaud, 1805, traduzione in lingua inglese ad uso degli studiosi americani Jomini, Antoine-Henri, (trad. del Col. S.B. Holabird)  Treatise on Grand Military Operations: or A Critical and Military History of the Wars of Frederick the Great as Contrasted with the Modern System, 2 voll. New York: D. van Nostrand, 1865; Jomini, Le Baron de, Précis de l'Art de la Guerre: Des Principales Combinaisons de la Stratégie, de la Grande Tactique et de la Politique Militaire, Bruxelles: Meline, Cans et Copagnie, 1838. Traduzione : Jomini, Baron de (trad. Major O.F. Winship and Lieut. E.E. McLean), The Art of War, New York: G.P. Putnam, 1854.
(33) P.G.T. Beauregard, “The First Battle of Bull Run”, in R. U. Johnson & C. C. Buel (a cura di), Battles and Leaders of the American Civil War cit., I, p.223.
(34) Ibidem, p.226.
(35) T.H. Williams, Beauregard: Napoleon in Gray, Baton Rouge: Louisiana State University, 1955, p.33.
(36) B. Bragg a J.P. Benjamin, 15 febbraio 1862, OR vol.6, pp.826-27; negli stessi termini, si veda B. Bragg a P.G.T. Beauregard, 27 febbraio 1862, OR vol.6, p. 836.
(37) Cfr. T. L. Jones (a cura di), Campell Brown’s Civil War, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 2001, p. 141.
(38) Il punto è ben evidenziato in S.H. Newton, "Why Wouldn't Joe Johnston Fight?", in North & South Magazine, Vol.5, nr.6, (2002), p.46.
(39) Sulla questione si veda M. van Creveld, Supplying War: Logistics from Wallenstein to Patton, Cambridge: Cambridge University Press, 1977, pp.17-40.
(40) J.E. Johnston al generale T. Jackson, 17 gennaio 1862, in OR, vol. 5, p. 1085.
(41) J.E. Johnston, Narrative of Military Operations during the Civil War, New York: Appleton, 1874, p.221.
(42) Si veda sul forum di questo stesso sito web http://guerracivileamerican.forumattivo.com/t978-joseph-eggleston-johnston-un-enigma.
(43) Per tale interpretazione, si vedano, tra gli altri, G.A. Bruce, “The Strategy of the Civil War” in Theodore F. Dwight (a cura di), Papers of the Military Historical Society of Massaschussets, 14 voll.,Boston-New York: Houghton, Mifflin & Co., 1895-1918, vol. 13, pp. 391-483;  J.F.C. Fuller, Grant and Lee: A Study in Personality and Generalship, 1933 repr. Bloomington: Indiana University Press, 1957; T.L. Connelly, “Robert E. Lee and the Western Confederacy: A Criticism of Lee’s Strategic Ability” in Civil War History, 15, 1969, pp. 197-213; R. F. Weigley, The American Way of War: A History of United States Military Strategy and Policy, New York: Macmillan, 1973, pp. 92-127; T.L. Connelly, The Marble Man: Robert E. Lee and His Image in American Society, New York: Knopf, 1977; A.T. Nolan, Lee Considered: General Robert E. Lee and Civil War History,  Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1991.
(44) R.E. Lee a A.G. McGrath, 24 dicembre 1861 in OR, vol. 6, p.350.Vedi in termini assai simili R.E. Lee a J.Lechter, 21 dicembre 1861, in William Jones et alii (a cura di), Southern Historical Society of Papers, 52 voll., Richmond: Southern Historical Society, 1876-1959, I, p. 462.
(45) F, Maurice (a cura di), An Aide-de-Camp of Lee, Boston: Little Brown, 1927 pp. 30-32; R.E.Lee a W.C.Lee, 28 febbraio 1863, in C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee, Boston: Little, Brown & co., 1961, p. 411.
(46) Si confronti, ad es., ibi. pp.249, 390, 654-55; OR vol. 42, pt., 2 pp. 1199-200, 1242, 1292; vol. 51, pt. 2, p. 534. Più, in generale, ampiamente  G.W.Gallagher, “An Old-Fashioned Soldier in a Modern War? Lee’s Confederate Generalship” in ID., Lee & His Army in Confederate History, Chapel Hill: UNC Press, 2001, pp. 151-191. Vedi più recentemente poi ID., Becoming Confederates. Paths to a New National Loyalty, Athens: University of Georgia Press, 2013, spec. pp. 11-52.
(47) C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee, cit. p. 411.
(48) R. E. Lee al Segretario alla Guerra James A. Seddon, 12 aprile 1864, ibi. p. 696; vedi anche pp.363, 660.
(49) Si veda R.F. Durden, The Gray and the Black: The Confederate Debate on Emancipation, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1972, pp. 122 ssg.
(50) Rimane tuttora fondamentale per la comprensione del pensiero strategico globale di Lee, lo scritto di C.P. Roland, “The Generalship of Robert E. Lee” in G. McWhiney (a cura di), Grant, Lee, Lincoln and the Radicals: Essays on Civil War Leadership, Evanston: Northwestern University Press, 1964, pp. 31-71. Un’ampia confutazione del presunto provincialismo di Lee e del suo disinteresse per gli altri teatri di operazione che non fossero quelli della Virginia, è in A. Castel, “The Historian and the General: Thomas L. Connelly and Robert E. Lee” in Civil War History, 16, 1970, pp. 209-221. Più in generale, oggi grazie all’opera della più recente e seria storiografia (Gallagher, Harsh, McMurry, Glatthaar) il tentativo di sostituire all’immagine di Lee come del nobile condottiero privo di difetti e dell’uomo senza pecche consegnataci da Freeman, quella, più erronea, di un generale che poco o nulla comprese delle necessità della Confederazione e della guerra moderna, è stato demolito, lasciando spazio ad un più maturo ed equilibrato giudizio.
(51) Per l'importanza strategica, cfr. C.B. Dew, Ironmaker to the Confederacy: Joseph R. Anderson and the Tredegar Iron Works, New Haven: Yale University Press, 1966.
(52) Per questo atteggiamento cfr. M.C.C. Adams, Our Masters the Rebels: A Speculation on Union Military Failure in the East, 1861-1865, Cambridge, MA: Harvard University Press, 1978.
(53) Sull’argomento si veda lo splendido studio di G.W. Gallagher, The Confederate War, Cambridge MA: Harvard University Press, 1997.
(54) H. Heth, Letter from Henry Heth, in William Jones et alii (a cura di), Southern Historical Society of Papers cit., IV, pp.153-54.
(55) R.E. Lee alla moglie Mary Anna Custis Lee, 19 aprile 1863, in C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee cit. p.430.
(56) Ibi., p. 411.
(57) Sconcertanti, alla luce del pensiero di Lee come restituitoci dalla sua corrispondenza, notazioni e scritti, appaiono, pertanto, le conclusioni di Raimondo Luraghi contenute nel breve saggio "Robert E.Lee. L’ultimo generale napoleonico", in ID., La Guerra Civile Americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, cit., pp.68-125.
(58) C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee cit. p.330-33.
(59) Ciò è mostrato dalle schede della libreria di West Point relative all'allora allievo Lee: cfr. D.S.Freeman, R.E.Lee: A Biography, 4 voll., New York: Charles Scribner’s & Sons, 1934-35, I, p.61; minore era invece il suo interesse per Jomini: si veda , pp.77, 354, 358sull’influenza di Napoleone a livello strategico-operazionale, si veda, da ultimo, in maniera persuasiva, S. Bowden, Robert E. Lee at War: Tragic Secessionist (primo volume di una progettata opera in 8 tomi), China: The Military History Presss, 2012.
(60) JDP, vol.9, pp.166-167.

3.La primavera del 1863 e la proposta Seddon.
La situazione che si trovava ad affrontare la Confederazione sull’insieme dei fronti all’inizio della primavera del 1863, sembrava tutt’altro che rosea, ma non appariva certamente drammatica.  Ad Est, Lee attendeva le mosse del suo avversario, il generale Joseph Hooker. Si sapeva che costui stava riorganizzando e rianimando l’Armata del Potomac, dopo la disastrosa sconfitta di Fredericksburg; si aveva anche notizia che il generale unionista stesse ammassando una formidabile forza (136.724 effettivi, al 31 marzo) per prendere quanto prima l’iniziativa e muovere contro Lee, che disponeva di meno della metà degli uomini: 64.799 (61). Ma tutti nella Confederazione parevano tranquilli; venisse pure avanti, quel dannato yankee: ci avrebbero pensato Lee e la sua formidabile armata a sistemare le cose.
Tutt’altra aria si respirava ad ovest della catena montuosa degli Appalachi. Qui i punti di attrito principali con le armate nordiste, erano sostanzialmente due. Sul fiume Mississippi, la piazzaforte di Vicksburg, con 48.829 uomini sparpagliati qua e là sul territorio immediatamente prospiciente la città e guidati dal luogotenente generale John C. Pemberton; costui doveva confrontarsi con il più abile tra i generali unionisti: Ulysses Simpson Grant, alla guida di 105.151 federali. Sino a quel momento Pemberton era riuscito a beffare ogni tentativo di Grant e la partita sembrava piuttosto a favore dei confederati che dei settentrionali. Più ad oriente, nel Tennessee centrale, si contrapponevano l’Armata del Tennessee guidata da Braxton Bragg (54.305 uomini) e quella unionista del Cumberland, sotto il comando di Rosencrans con 81.923 uomini. I due contendenti, qui, parevano impegnati in una vera e propria sitzkrieg, sicché la situazione sembrava relativamente tranquilla. In vari punti sulla costa atlantica nel North Carolina ovvero più a Sud, nel Golfo del Messico, presso Charleston, nel South Carolina, gli unionisti avevano stabilito importanti teste di ponte con cui minacciavano i principali porti della Confederazione. Ma tutto sommato, anche in quei luoghi, i meridionali parevano poter controllare le offensive unioniste. All’estremo occidente, oltre il Mississippi, regnava incontrastato il generale Kirby-Smith e più da presso, ad est, nell’Arkansas, il generale Holmes; si potevano dormire sonni tranquilli: vista la scarsa importanza attribuita allo sconfinato territorio del Trans-Mississippi, il Governo federale aveva deciso di impiegare colà poche truppe e di affidarle a comandanti di seconda scelta.
In sostanza l’unico fattore di preoccupazione era dato dall’intera zona del c.d. superdipartimento nr.2 o Dipartimento dell’Ovest, che come visto abbracciava di fatto tutto il teatro occidentale, dagli Appalachi sino al Mississippi: circa 250.000 chilometri quadrati. Bragg e Pemberton si trovavano a notevole distanza tra loro, il territorio da coprire era immenso e servito da strade praticamente inesistenti con un sistema ferroviario a dir poco primitivo, mal posizionato per le necessità strategiche e che si trovava al collasso per mancanza di manodopera specializzata e di materiale di ricambio. Un fattore che, come vedremo, giocherà un ruolo decisivo nelle opzioni e scelte a disposizione del comando confederato. Vi era però un’importante novità. Per tentare di ovviare a tale situazione, alla fine di novembre del 1862, Davis aveva scelto di affidare la guida dell’intero dipartimento a “Joe” Johnston: nella mente del Presidente confederato, egli avrebbe dovuto assicurare che il coordinamento tra le due armate confederate funzionasse a dovere e con il suo acume strategico ed esperienza, assumere le iniziative necessarie, ove fosse il caso, per muovere le truppe da un punto all’altro in modo da contrastare ogni tentativo nemico; l’ampiezza dei poteri conferiti al generale prevedeva, che egli potesse prendere su di sé la diretta conduzione delle armate sul campo, se necessario. Sennonché, Johnston aveva accettato quel prestigioso incarico con riluttanza e delusione, giungendo a sospettare, in modo un po’ paranoico, che la sua nomina fosse dovuta ad un piano del Presidente per screditarlo. Nel corso della lunga convalescenza seguita al suo ferimento nella battaglia di Seven Pines, peraltro, egli si era andato avvicinando alla fazione politica che più contrastava e criticava Davis, e in particolar modo al membro del Congresso confederato Louis Trevezant Wigfall; costui, per quanto ardente patriota confederato che si era mostrato favorevole a misure draconiane di nazionalizzazione  dell’economia e della società sudista a tutto vantaggio dell’esercito e delle operazioni militari, era pure un maneggione della peggior specie, oltreché un fallito, ma assai presuntuoso, ex generale di brigata della Confederazione;  presso la casa di Wigfall, a Richmond, Johnston aveva trascorso i mesi successivi allo scontro di Seven Pines: tra cure e lunghi colloqui con lo stesso Wigfall, il generale confederato era andato maturando la profonda convinzione che Davis fosse un incompetente e lo detestasse per motivi personali. Già piccato per una banale questione circa il proprio rango e grado, appresa la proposta del Presidente confederato di nominarlo comandante generale del Dipartimento dell’Ovest, si sfogò con Wigfall stesso, cui rivelò che “mai nessuno ha assunto un comando sotto più avverse circostanze” (62). E poco prima, non appena ricevuta la nomina, scriveva che “se sono stato informato correttamente, le forze che si pongono sotto il mio comando sono notevolmente inferiori a quelle del nemico opposte a loro, mentre nel Dipartimento Trans-Mississippi il nostro esercito è molto più grande di quello federale. I  nostri due eserciti su questo lato del Mississippi hanno lo svantaggio di essere separati dal fiume Tennessee, e di trovarsi innanzi ad un esercito federale [quello di Grant] più grande” (63). Il periodo di comando di Johnston nasceva sotto i peggiori auspici e il generale virginiano si trovava nelle condizioni di spirito meno adatte per i gravosi compiti che lo attendevano; come sua consuetudine, egli era disposto a  vedere solo il lato arcipessimistico delle cose. Se Johnston credeva che Davis fosse in qualche misura condizionato da opinioni personali di natura negativa nei suoi confronti, si sbagliava di grosso; in realtà il Presidente confederato, lo aveva elevato a quell’importante incarico, perché riteneva che il generale virginiano possedesse un grandissimo senso strategico e qualità tali da svolgere efficacemente quel compito; del resto nel giugno del 1862, quando qualche voce di critica contro Johnston e la sua condotta nella campagna peninsulare di quell’anno qua e là si era levata isolata, Davis aveva difeso appassionatamente il generale, sia in pubblico che in privato. Scrivendo alla moglie, il presidente  si augurava il ritorno di Johnston quanto più prima al servizio attivo: egli, concludeva, è “un buon soldato, conosce la truppa e potrebbe rendere la miglior opera in questo momento” (64). Non è certo questa la sedes materiae per un’approfondita analisi dei successivi eventi che caratterizzarono il periodo di comando di Johnston, sino al drammatico precipitare della crisi nel maggio del 1863; quel che preme sottolineare qui, piuttosto, è come i due maturarono sin da subito una diversa visione sul piano strategico, pur partendo spesso da medesime posizioni. Ancor più, occorre rimarcare l’assoluta incapacità di Johnston di comprendere come da lui si richiedesse di operare e intervenire attivamente e assiduamente, anche a costo di esporsi in prima persona e di adottare decisioni drastiche. Una risposta che Johnston, per sua natura e per proprio pensiero, non poteva né, soprattutto, voleva fornire. Le conseguenze saranno tragiche. Lo schema immaginato  da Johnston per risolvere l’intricata matassa era semplice. Egli suggeriva che per difendere efficacemente Vicksburg e il corso del Mississippi, occorresse unire le forze del generale Theophilus  H.Holmes, nell’Arkansas (e quindi formalmente appartenenti al dipartimento del Trans-Mississippi, dipartimento di cui all’epoca Holmes era comandante, prima di essere sostituito nel marzo del 1863 da Kirby-Smith) con quelle che si trovavano sul lato est del grande fiume, affidate a Pemberton. Di qui le forze, ora congiunte, avrebbero dovuto muovere decisamente contro Grant e sbaragliarlo, invece di indugiare nei trinceramenti di Vicksburg  e là attendere le mosse del condottiero unionista. Una volta sconfitto Grant, Johnston proponeva che le forze del Mississippi si unissero con quelle del generale  Bragg e muovessero contro Ronsencrans nel Tennessee (65). Si trattava di un piano prettamente militare e decisamente irrealistico, contando esso sulla carta su di un numero di uomini che Holmes non possedeva (Johnston stimava fossero circa 25.000-30.000, ma in realtà non superavano i 10.000-12.000) e su qualità marziali che né Pemberton né Holmes avevano. Ma esso aveva dalla sua il vantaggio di risolvere un problema da tempo presente sui fronti occidentali: quello della netta separazione ed autonomia tra le forze che si trovavano divise dal Mississippi, creando così una sorta di scompartimento stagno tra i due lati del fiume. Tuttavia l’idea aveva pure altri difetti. Lo spostamento delle truppe ad oriente del fiume avrebbe significato di fatto l’abbandono del territorio dell’Arkansas: un lusso che Davis, per quanto non disapprovasse del tutto l’idea – piano che, anzi, egli aveva divisato mesi prima - non si poteva permettere sul piano politico (66). Di qui la scelta, di Davis di non assumere un atteggiamento perentorio nei confronti di Holmes, limitandosi a suggerire a costui, ove fosse possibile, di riprendere dapprima Helena nell’Arkansas e solo in seguito di unire le sue truppe con quelle di Pemberton. Del resto v’è da dubitare che anche rinforzato da 10.000 uomini,  Pemberton (o lo stesso Holmes: chi avrebbe dovuto assumere il comando, non era del tutto chiaro) sarebbe riuscito a sconfiggere un uomo come Grant; tanto più se, come prevedeva Johnston, Pemberton o Holmes fossero dovuti uscire dalle difese di Vicksburg, assumere l’iniziativa penetrando nel cuore del territorio unionista, dando battaglia in campo aperto al nemico. Si noti bene che Johnston, come diverrà poi evidente nel corso della campagna finale per la conquista di Vicksburg, tendeva sempre ad affidare ad altri l’attuazione di audaci piani offensivi, ma quando chiamato ad eseguire quegli stessi compiti, cercava con ogni pretesto di adottare una strategia meramente dilatoria o difensiva. In conclusione Johnston tendeva a separare nettamente il Mississippi dal Tennessee: troppa la distanza tra i due punti strategici e diversi gli obiettivi nevralgici, oltre agli avversari. Secondo Davis, invece, il problema dell’intero teatro occidentale doveva giocarsi tutto sullo spostamento di forze tra Bragg e Pemberton (o viceversa) e sulla loro stretta cooperazione. A seconda della consistenza della minaccia unionista e del luogo della sua manifestazione, si sarebbe deciso dove concentrare le forze; o meglio, Johnston, secondo il presidente confederato, avrebbe dovuto adottare le opportune scelte, assumendo anche il controllo diretto sul campo delle operazioni, se ritenuto necessario. Come si può notare la latitudine dei poteri conferiti a Johnston, in teoria, appariva assai estesa: in pratica - lamentava il generale - non era ben chiaro cosa si richiedesse a lui: soprattutto, egli non voleva esporsi e impegnarsi in prima persona, assecondando un approccio strategico che riteneva profondamente erroneo. Come che sia il piano di Davis, seguiva uno schema tipicamente jominiano, basato sullo sfruttamento delle linee interne a scopo difensivo; al tempo stesso- e questo Johnston non lo comprendeva – assicurava il controllo del territorio alla Confederazione. Un disegno, peraltro, che faceva conto sull’impossibilità per i federali di scatenare due offensive contemporanee su diversi fronti; esso, tuttavia, presentava un evidentissimo difetto, che Johnston non mancò di far notare immediatamente: l’impossibilità di muovere ingenti quantità di truppe dal Tennessee al Mississippi (e viceversa) in meno di un mese, a causa dello stato delle ferrovie meridionali e della loro dislocazione, pensata più per servire i porti dalle zone interne ricche di cotone che per agevolare lo spostamento di uomini (67); di conseguenza, l’idea mancava di ogni concreta capacità di poter efficacemente e tempestivamente intervenire in uno dei due settori minacciati. Ad ogni buon conto, Holmes, ufficiale timoroso e assai più preoccupato di non far danni  che di risolvere i problemi del Sud, accampando, come ovvio, ogni genere di scuse, tergiversò e si limitò ad un breve raid offensivo nell’Arkansas, mentre il piano di Johnston, fu sostanzialmente rigettato da Davis. Costui, dapprima, si limitò a confidare nella discrezionalità di Holmes, incitandolo ad agire e a riunire le sue forze con quelle di Pemberton, senza però emanare un ordine diretto, preciso ed inequivocabile; poi, di fronte all’ennesimo rifiuto di Holmes, nonostante l’opposizione dello stesso Bragg, ordinò lo spostamento di 9.000 uomini (divisione Stevenson rinforzata di alcune altre unità) dal Tennessee a Vicksburg (68). Preso atto della diversa concezione strategica di Davis, Johnston, già assai poco entusiasta di ricoprire quello che lui considerava un ufficio di secondaria importanza, intimamente convinto che l’unica strategia che avrebbe potuto funzionare fosse quella da lui suggerita, adottò una condotta improntata ad un sostanziale disinteresse per le sorti dell’intero teatro occidentale. Una volta respinto il suo piano, egli credeva che il destino di Vicksburg fosse già segnato, mentre il Tennessee restava nelle mani di Bragg: ma anche qui senza speranza; dunque, se la vedesse Davis: Johnston non avrebbe più mosso un dito. In una missiva particolarmente rivelatrice, risalente al gennaio 1863 e indirizzata al presidente, così si esprimeva: “la distanza tra i due teatri di operazione e i diversi obiettivi dei due eserciti al mio comando rendono impossibile per me esercitare alcun controllo generale. Devo prendere l' immediata direzione di una di queste armate, così all'istante sostituendo il suo proprio comandante – fine cui credo non fosse prevista [la mia nomina]- o restare inattivo , tranne in quelle rare occasioni in cui potrebbe essere opportuno trasferire truppe da un’armata all'altra. Nella prima eventualità dovrei privare un ufficiale , nel quale voi avete riposto la vostra fiducia , del comando per il quale voi lo avete selezionato. Circostanza cui, a mio avviso [la mia nomina] non era diretta – e che potrebbe generare un malcontento, il quale potrebbe interferire con una cordiale collaborazione così necessaria (...) Nel secondo, dovrei in generale essere un lontano spettatore dei servizi dei miei commilitoni - una posizione che inevitabilmente mi disgrazia. Ho già perso molto tempo lontano dal servizio militare e di conseguenza non posso permettermi di restare inattivo più a lungo per il resto della guerra ( ...) Stando così le cose, rispettosamente e sinceramente chiedo di essere assegnato a qualche altra posizione che mi possa dare una migliore possibilità di rendere  quel servizio di cui posso essere capace” (69). In questo straordinario documento, conservato a lungo tra le carte private di Johnston e solo di recente pubblicato integralmente, traspaiono tutti i caratteri (e limiti) dell’uomo. Per un verso egli era mosso da un’irrefrenabile aspirazione alla notorietà, che lo divorava e lo conduceva a domandare per sé un posto di comando indipendente: ma alle sue condizioni. Mentre è comprensibile che egli, come  ogni suo pari, ambisse a fortune e glorie militari, il  senso dell’onore di Johnston appariva però ambivalente: voleva servire il suo paese, ma al tempo stesso non voleva servire un’idea strategica che considerava sbagliata e foriera di calamità per le fortune militari della Confederazione. Meglio ancora, della sua personale reputazione: per un altro verso, infatti, affiorava in lui, un’eccessiva sensibilità per la propria fama e nomea. Come lamentava con Wigfall in quegli stessi giorni, sebbene non comandasse alcuna armata sul campo, "il paese può ritenermi responsabile per ogni fallimento [che dovesse occorrere] tra North Carolina e Georgia e il Mississippi, poiché si suppone che io sia al comando in tutte quelle zone. Dopo aver comandato la nostra più importante, e posso aggiungere, miglior armata è dura perderne il comando a causa di ferite [riportate] in battaglia, per riceverne uno puramente nominale. Devo confessare che non posso essere di alcun aiuto lagnandomi in questa posizione" (70). Mai e poi mai, dunque, egli avrebbe impegnato la sua immagine e il suo onore in scenari che egli non approvasse o gli si addicessero; e se come visto più sopra, il suo personale approccio lo induceva ad arretrare e difendersi nella speranza di poter infliggere un colpo decisivo all’avversario quando le condizioni ideali si verificassero, la conseguenza di tutto ciò non avrebbe potuto che essere un rifiuto a seguire un diverso percorso e a prendere coraggiose iniziative che potessero danneggiare la sua reputazione. Tanto più considerando quanto Johnston, nel suo profondo animo, ora rimproverasse Davis di averlo emarginato in un teatro di operazioni secondario, avendogli sottratto il comando dell'Armata della Virginia Settentrionale per relegarlo in un ruolo difficile e oscuro, in cui avrebbe avuto tutto da perdere in caso di sconfitta e nulla da guadagnare in caso di vittoria. Le modalità del fallimento della campagna per salvare Vicksburg, sarebbero state la drammatica prova dell'atteggiamento risentito, diffidente e, ad un tempo, poco collaborativo di Johnston. Nel frattempo, uno spiraglio imprevisto per le sue ambizioni sembrò improvvisamente aprirsi proprio alla fine di gennaio. Mentre egli si trovava a Mobile, in Alabama, per ispezionare le locali difese, un telegramma della massima urgenza, lo raggiunse: il presidente confederato gli intimava di recarsi immediatamente a Tullahoma, quartier generale dell’Armata del Tennessee. Colà avrebbe ricevuto istruzioni più dettagliate. Quivi giunto, il 29 gennaio trovò una missiva di Davis che lo incaricava di accertare quale fosse la condizione generale dell’armata, ma in particolar di scoprire se il suo comandante, Braxton Bragg, godesse ancora della fiducia dei suoi subordinati e della truppa: al presidente, dopo la sconfitta di Murfreesboro, erano giunte notizie e voci allarmanti su un grave dissidio creatosi tra gran parte del corpo ufficiali e Bragg stesso. Johnston aveva carta bianca: poteva e doveva “determinare cosa fosse [necessario] nel miglior interesse” per le sorti dell’esercito e della guerra, quand’anche ciò significasse rimuovere immediatamente Bragg dal comando; ove ciò dovesse accadere, aggiunse Davis senza mezzi termini, Johnston avrebbe dovuto assumere immediatamente la guida dell’armata (71). La situazione di opposizione e rivolta nei confronti di Bragg era divenuta, in realtà, un fatto persino sin troppo manifesto; i due comandanti di corpo d’armata del Tennessee, Leonidas Polk e William J. Hardee, desideravano, senza troppi giri di parole, liberarsi immediatamente del comandante dell’esercito, che consideravano un arrogante e un incapace. Il generale di divisione Benjamin F. Cheatam aveva dichiarato apertamente che non avrebbe più servito sotto Bragg in battaglia; un altro ancora, John C. Breckinridge, aveva persino pensato di sfidare a duello Bragg. Il 3 febbraio, Johnston spediva un rapporto preliminare a Davis in cui dava conto delle opinioni raccolte direttamente dalla bocca di Bragg, Hardee, Polk e del governatore Harris. Il resoconto confermava come Bragg non sembrasse godere del sostegno degli ufficiali interrogati da Johnston; tuttavia, egli proseguiva, v’era da lodare il comportamento di Bragg nella campagna di Murfreesboro e più in generale, sottolineava come la truppa apparisse ben equipaggiata e con il morale alto, proprio grazie all’abilità del suo comandante. Concludendo, Johnston metteva le mani avanti: non pareva a lui opportuno per questioni di forma e onore che nell’eventualità si decidesse di rimuovere Bragg, lui stesso fosse designato come sostituto (72). A questo punto, il “blocco occidentale” – così è stato definito un gruppo informale di militari e politici confederati, in gran parte ostili alla leadership di Davis e che si andò coagulando a far data dalla fine del 1862 in particolar modo intorno alle figure  di Wigfall, Beauregard e del generale James Longstreet, con l’idea di privilegiare e risollevare le sorti del fronte dell’Ovest - si mise in moto. Seddon, su pressione di Wigfall, scrisse ufficiosamente a Johnston incitandolo a sostituire Bragg; quanto alla forma, il Segretario alla guerra suggeriva a Johnston di tenere Bragg con sé, affidandogli un posto di rilievo nel suo stato maggiore; in questo modo l’eleganza sarebbe stata salva (73). Polk e Hardee si rivolsero direttamente al Presidente confederato, chiedendo che Johnston sostituisse il comandante dell’armata. Wigfall stesso assicurò l’amico che poteva considerare già fatta la cosa: non aveva che da inviargli un telegramma contenente una sorta di parola d’ordine e lui avrebbe provveduto a fargli avere la nomina tanto agognata (74). Ad essi e al presidente, Johnston oppose un rifiuto netto; non poteva considerare in alcun modo praticabile l’idea, soprattutto per questioni di onore: considerando ch’egli agiva come una sorta di arbitro e osservatore, sarebbe stato alquanto disdicevole che fosse poi, proprio lui, a sostituire Bragg; ma vi era anche una questione di sostanza: Johnston si era convinto (o almeno così appariva nella sua corrispondenza) che Bragg fosse un eccellente comandante e anzi aveva addirittura assicurato costui che le lamentele degli altri ufficiali, erano state avanzate al solo scopo di nascondere le loro colpe. Nel secondo e definitivo rapporto, inviato a Davis poco più di una settimana dopo, egli elogiò il comandante dell’Armata del Tennessee e rassicurò il presidente circa le qualità marziali di Bragg, confessando però di non aver compiuto ulteriori indagini presso altri ufficiali. Insomma, a suo dire, l’armonia regnava nell’armata eccezion fatta per casi isolati; del resto, affermava Johnston, gli uomini avrebbero reagito con disappunto alla sostituzione del loro abile comandante; infine, suggeriva Johnston, nessuno avrebbe saputo sostituire Bragg o far di meglio di quanto compiuto sinora da costui, facendo specifico riferimento a Murfreesboro: se qualcuno coltivava segrete ambizioni all’interno dell’Armata del Tennessee, con queste parole Johnston le distrusse (75). Il generale virginiano sembrava non aver fatto i conti con l’oste: ora Bragg, forte dell’appoggio di Johnston, inviò a sua volta un rapporto a Davis, chiedendo apertamente la testa dei generali McCown, Breckinridge e Cheatam. L’indicazione di quest’ultimo come uno dei principali responsabili della sconfitta di Murfreesboro e la contestuale diffusione del rapporto di Bragg, fecero esplodere di indignazione tanto i potenti amici politici di Cheatham, quanto i soldati  provenienti dal Tennessee, a costui assai affezionati, aprendo un nuovo fronte di polemica all’interno ed esterno dell’esercito. Davis divenne sospettoso: come poteva credere al rapporto di Johnston, che aveva indicato come Bragg godesse della stima delle truppe e dei suoi ufficiali, se lo stesso comandante dell’armata domandava la rimozione di suoi subordinati? Il 9 marzo, il presidente decise di agire con maggior risolutezza: Johnston doveva tornare a Tullahoma, rilevare Bragg dal comando, ordinando a costui di recarsi immediatamente a Richmond per spiegazioni in merito ai fatti. Con queste precise istruzioni, Johnston giunse al quartier generale dell’armata. Epperò egli appariva ancor più restio di prima ad assumere il suo comando e pronto a cercare ogni scusa per sottrarsi a quell’intimazione; un’improvvisa e grave malattia occorsa alla moglie del generale Bragg, gli venne inaspettatamente in aiuto: Johnston si precipitò a comunicare a Richmond che, data l’impossibilità per il comandante dell’Armata del Tennessee di allontanarsi da Tullahoma, causa la salute della moglie, egli avrebbe assunto un comando puramente nominale dell’esercito, evitando pubblici proclami e limitandosi a dare disposizioni piuttosto ordinarie di natura prettamente amministrativa. Una volta riavutasi la moglie di Bragg, fu la volta di Johnston, sempre più pressato da Hardee e Polk perché rimuovesse l’odiato superiore, ma ugualmente deciso a non prendere alcuna iniziativa, a lamentare il riacutizzarsi del dolore per i postumi delle ferite riportate a Seven Pines, dichiarando di non essere in grado di assumere un comando effettivo sul campo e rimandando così alle calende greche, in un fiume d’inchiostro e di  corrispondenza interminabile con l’alto comando confederato, ogni decisione in merito alla sua posizione in seno all’Armata del Tennessee (76). Certo, può essere che un senso  particolarmente alto dell’onore e uno scrupolo verso l’opinione e il giudizio dell’ambiente militare da parte di Johnston, come ha sostenuto un suo biografo sulla scorta delle giustificazioni espresse da costui, abbiano impedito al generale di prendere direttamente la guida dell’esercito (77). Ma come ha dovuto ammettere questo stesso storico, da tutta la vicenda – certo assai più simile ad un romanzo epistolare dal sapore di operetta tragicomica che ad un evento bellico degno di nota -  si ricava piuttosto l’impressione che Johnston, per un lato, e come già detto più sopra, non volesse impegnarsi sul teatro occidentale, mettendo così a repentaglio la propria reputazione, certo com’era che l’idea strategica di Davis fosse destinata a fallire. Johnston aveva deciso da tempo di non far nulla di ciò che gli veniva richiesto; quanto a Davis, l’odiato Davis, che colà lo aveva relegato pur dopo il suo ferimento per la causa della Confederazione, si poteva impiccare a quella stessa corda che lui, da sé medesimo, aveva scelto, rigettando i suoi piani strategici. Ma per un altro lato, gli è che Johnston, roso da una gelosia incontenibile nei confronti di Lee oramai divenuta di dominio pubblico, non attendeva altro che poter rimpiazzare il comandante dell’Armata della Virginia Settentrionale. Secondo le notazioni del diario di Robert Gallick Hill Kean, impiegato presso il ministero della guerra sudista “[Johnston] è davvero un piccolo uomo, non ha compiuto alcunché, pieno di sé stesso e, piu di ognicosa, divorato da una morbosa gelosia [nei confronti] di Lee e di tutti i suoi superiori in posizione, grado o fama. Io temo i più gravi disastri dal suo comando nel dipartimento occidentale” (78). Del resto, confidandosi con Wigfall, nel marzo 1863 Johnston scriveva “mi viene detto che il presidente e [il] segretario alla guerra, pensano che essi mi abbiano conferito la più alta posizione militare della Confederazione. Se essi la pensano così, non dovrebbe il nostro più alto ufficiale [ i. e. Lee] occupare questa [posizione]? A me pare che questo principio dovrebbe condurre Lee qui. Io potrei allora sostituirlo con gran abilità al mio vecchio comando” (79).  Per quanto a posteriori si possa dare dell’illuso a Johnston, vista la popolarità, il carisma e l’eccezionale abilità mostrata da Lee sino ad allora, all’epoca egli poteva contare su almeno tre importanti fattori per riavere la guida del principale esercito sul fronte orientale. Anzitutto la potente amicizia e confidenza di Wigfall (oltre che del deputato Henry Foote e del senatore John Yancey); sebbene costoro ammirassero, Lee si può star certi che dati  i buoni rapporti di quest’ultimo con Davis, al primo passo falso di Lee, i sodali di Johnston, se non altro per inimicizia politica nei confronti del Presidente, ne avrebbero chiesto la testa, suggerendo di sostituirlo con Johnston stesso. In secondo luogo, quest’ultimo godeva anche dell’appoggio di una parte rilevante dell’opinione pubblica colta e specialmente di alcuni influenti organi di stampa sudisti, quali il Richmond Examiner o il Southern Literary Magazine. Il noto e stimato giornalista e polemista Alfred Pollard, aveva giù espresso la propria preferenza per Johnston, lodandone la sagacia tattica che così tante preziose vite umane  risparmiava, rispetto alla visione eminentemente offensiva e temeraria di un Lee. Infine, nella stessa Armata della Virginia Settentrionale, Johnston godeva della stima di James Longstreet, anche perché il suo antico superiore ne aveva coperto le gravissime responsabilità nella sconfitta di Seven Pines, giungendo a chiedere la falsificazione dei rapporti ai suoi sottoposti e ad esiliare lontano il povero generale Benjamin Huger, su cui furono scaricate tutte le colpe per il fallito attacco a McClellan e all’Armata del Potomac. E Longstreet, anch’egli assai immanicato politicamente, oltreché stretto amico del Segretario alla guerra Seddon, non mancava di scrivere a Johnston esprimendogli la speranza di un suo ritorno in Virginia.
Questa lunga digressione sull’atteggiamento di Johnston, Davis e delle fazioni createsi all’interno della Confederazione, appare in realtà cruciale per comprendere i futuri avvenimenti e soprattutto per intendere come il destino di Vicksburg, al di là di scelte erronee compiute localmente, fosse già segnato da tempo. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur: il 30 aprile, il generale Grant, con una mossa di un’audacia straordinaria, era riuscito a fa passare a meridione di Vicksburg, la gran parte del suo esercito e si accingeva a marciare verso nord per isolare la Gibilterra del Sud, dal resto del paese. Non tutto sembrava però perduto per le sorti della guerra: in quegli stessi giorni Lee, sul fronte dell'Est, aveva respinto a Chancellorsville la tanto attesa offensiva unionista di primavera guidata da Hooker. Di più: Lee aveva sbaragliato completamente un'armata doppia della sua, alimentando le voci sulla sua imbattibilità. La reazione dell’alto comando confederato alle funeste notizie provenienti dal Mississippi, fu pronta ed immediata. Il 9 maggio, Seddon ordinò al generale Johnston di dirigersi senza por di mezzo il tempo a Jackson, capitale dello stato del Mississippi e  assumere il comando delle forze colà dislocate, allo scopo di contrastare Grant e salvare Vicksburg. Purtroppo, come visto, l’iniziativa, per quanto lodevole, faceva conto sull’uomo sbagliato. Johnston, semplicemente non era “psicologicamente, mentalmente, o moralmente capace di assumere quei rischi indispensabili per un esercito più debole per operare con aggressività contro un nemico molto più forte” (80). Certo sin da subito che il piano di Davis fosse destinato a fallire, convinto sino ai limiti della paranoia che il presidente volesse screditarlo agli occhi del mondo, affidandogli un comando sul campo solo per mostrarne l’inadeguatezza, egli partì alla volta di Vicksburg deciso a non assumere alcuna iniziativa che non fosse la conseguenza diretta di un ordine preciso proveniente da Richmond, su cui dunque sarebbe ricaduta la responsabilità ultima di eventuali fallimenti. Del resto, lamentandosi con Wigfall nel dicembre 1862 circa il proprio ruolo, era addirittura stato consigliato da costui di tenere copia della corrispondenza ufficiale con il governo confederato, in modo da poter dimostrare di chi fosse la responsabilità delle sventure confederate; successivamente, nel giugno 1863, il senatore lo aveva ammonito in modo ancor più chiaro su ciò che si poteva attendere: dovesse Vicksburg cadere, egli sarebbe divenuto il capro espiatorio per Davis e l’alto comando confederato (81). Di certo, come mostreranno gli eventi, egli non avrebbe mai mosso verso l’avversario per rischiar battaglia  - e soprattutto, la propria fama - in inferiorità numerica o in condizioni sfavorevoli, preferendo lasciar fare agli altri quello che sarebbe stato suo compito, sperando che gli avvenimenti prendessero una piega favorevole. Al di là di singole responsabilità nella conduzione della campagna per salvare Vicksburg, per ripeterci, non era questo l’atteggiamento che sarebbe occorso in quei drammatici frangenti: ma di ciò più oltre. Ad ogni buon conto, il 9 maggio stesso, Seddon (non è ben chiaro se dietro sollecitazione di Davis o meno) scrisse a Lee chiedendo di organizzare la partenza della divisione Pickett (forte di circa 8.500 uomini) per Vicksburg (82). Lee replicò per le vie brevi, il giorno successivo, telegrafando che “non è
stato possibile decifrare la vostra disposizione fino a mezzogiorno di oggi [10 maggio]. L'adozione della vostra proposta rappresenta un azzardo e diviene una questione tra Virginia e Mississippi. La distanza e l'incertezza circa l'impiego delle truppe appaiono sfavorevoli. Ma, se necessario, [darò] ordine a Pickett immediatamente.” (83).  Poi, come sua consuetudine, contestualmente, compose una lettera allo stesso segretario della guerra, per spiegare in modo più approfondito il motivo dei propri dubbi in merito alla proposta. “Il vostro telegramma del 9 ultimo scorso, è stato ricevuto ieri sera - scrisse Lee quello stesso giorno - ma così tanti errori si sono verificati nella sua trasmissione che non è stato possibile renderlo comprensibile fino mezzogiorno di oggi. Ho risposto ad esso via telegrafo, ma credo che sia giusto entrare nel merito in modo più dettagliato rispetto al mio dispaccio. Se si decide di inviare la divisione di Pickett al generale Pemberton, suppongo che essa non possa  raggiungerlo se non alla fine di questo mese. Se qualcosa dovesse accadere in quella zona, sarà tutto finito per quel momento, poiché il clima del mese di giugno costringerà il nemico a ritirarsi. L'incertezza del suo arrivo e l'incertezza circa il suo impiego mi fanno sorgere dubbi in merito alla scelta di inviarlo [Pickett]. La sua rimozione da questo esercito si farà sensibilmente sentire. A meno che non si sia in grado di ottenere dei rinforzi [qui], potremmo essere costretti a ritirarci nelle postazioni difensive intorno a Richmond. Al momento siamo in forte inferiorità numerica rispetto al nemico. Tenendo conto della relazione del medico-chirurgo Letterman [Jonathan Letterman], direttore medico dell'esercito del generale Hooker, del numero di malati segnalati da lui e del rapporto dei malati rispetto al numero intero [di uomini], la sua forza aggregata, per calcolo, ammonta a più di 159.000 uomini. Vedo dall’Herald [Magazine, periodico settentrionale] del 7 ultimo scorso che Heintzelman [Samuel P. Heintzelman, generale unionista], con 30.000 uomini , si è messo in marcia per rinforzarlo [Hooker]. Di conseguenza potete vedere da voi lo svantaggio numerico a nostro sfavore e stabilire se il fronte della Virginia è più in pericolo rispetto al fronte del Mississippi. Se alla divisione di Pickett fosse ordinato [di trasferirsi] ad ovest, sarebbe meglio che alla brigata Pettigrew fosse ordinato [di trasferirsi] presso la linea del Blackwater. Penso che [l’impiego] delle truppe da trasferire dalla Virginia al Mississippi, in questa stagione sarebbe grandemente messo in pericolo dal clima. La forza di quest’armata è stato ridotta a causa delle perdite nelle ultime battaglie” (84). (Gli argomenti avanzati da Lee per opporsi al trasferimento di Pickett e dei suoi uomini a occidente, erano sostanzialmente quattro. Il primo era di natura strategico-nazionale. Se si fosse indebolita l’Armata della Virginia Settentrionale, ragionava Lee, questa avrebbe dovuto assumere un atteggiamento del tutto passivo e data la sproporzione di forze, avrebbe dovuto, con ogni probabilità, compensare lo svantaggio numerico arretrando sino ai trinceramenti eretti intorno a Richmond, tentando così di bilanciare grazie alle opere difensive la propria inferiorità numerica. Peraltro la stima fornita da Lee per l’armata di Hooker, ossia 159.000 uomini “aggregati”, si riferiva ai dati numerici complessivi unionisti, cioè dei presenti e assenti per malattia, per licenza o altro motivo; essi non tenevano conto sia delle perdite inflitte a Chancellorsville (oltre 17.000 tra morti e feriti) né di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco: ossia lo scioglimento come neve al sole di parte dell’Armata del Potomac per scadenza dei termini di arruolamento di interi reggimenti e compagnie. La bruciante sconfitta di Chancellorsville iniziava a produrre quello sfaldamento  nel morale unionista che Lee aveva individuato come scopo principale della sua politica militare. Come che sia, secondo il condottiero virginiano, una volta persa l’iniziativa in Virginia, le prospettive di vittoria si sarebbero ridotte al lumicino: per lui non era tanto questione di importanza da darsi a questo o quel fronte, né di privilegiare il teatro virginiano rispetto a quello del Mississippi, quanto di non indebolire l’unico settore in cui le armate confederate avevano dimostrato non solo di poter bloccare ogni avanzata dei settentrionali verso la capitale, ma di poter assumere l’offensiva, tentando così di rovesciare l’inesorabile corso degli eventi e della guerra di attrito che alla lunga avrebbe favorito l’Unione. E a ben vedere Lee aveva colto quello che era, sul piano strategico, il vero punto debole della proposta di Seddon: si trattava di inseguire l’iniziativa dei federali ad ovest, piuttosto che dettare ad essi il punto di scontro proprio lì, ad oriente, ove egli aveva dimostrato di poter batterli; perché, in definitiva, riflettendo bene, trasferire uomini a centinaia di chilometri di distanza, privando la miglior arma di cui disponesse la Confederazione, ossia l’Armata della Virginia Settentrionale, di preziose risorse, significava adottare una politica di dispersione delle forze piuttosto che una politica di concentrazione di esse. Le altre tre problematiche, invece erano di natura più strettamente operazionale. La prima faceva conto sul clima malsano tipico delle zone intorno al Mississippi in estate. Secondo il generale virginiano, una volta arrivata “la stagione”, come Lee definiva quel particolare periodo di tempo, le operazioni offensive settentrionali avrebbero conosciuto una battuta d’arresto e la crisi si sarebbe risolta da sé, senza bisogno di trasferire rinforzi. Si trattava di una  convinzione, già espressa da Lee nell’aprile di quello stesso anno, certamente del tutto erronea, ma non priva di una sua logica, né, soprattutto, molto diversa da quella di molti altri ufficiali dell’epoca, sia unionisti che confederati (85). Nel 1862, ad esempio, a più riprese i generali Mansfield Lovell, Edmund Kirby Smith e Sterling Price avevano informato i comandi sudisti del fallimento delle operazioni unioniste nella Louisiana e nel Mississippi proprio a causa del terribile clima estivo delle zone, clima che portava seco un aumento assai significativo di malattie (e, di conseguenza, spaventose perdite tra la truppa) oltre a numerosi problemi logistici legati ad esse (86). D’altro canto, il generale unionista Winfield C. Scott, autore del già rammentato piano Anaconda, ammoniva che le operazioni sul corso del fiume Mississippi avrebbero dovuto iniziare in autunno, onde concludersi prima dell’inizio della stagione estiva, allorquando cioè il clima torrido e umido, avrebbe impedito un’utile prosecuzione delle stesse. Lee dunque, per quanto si sbagliasse, non faceva altro che riflettere un’opinione largamente diffusa tra i suoi pari all'epoca. Laddove certamente Lee non errava, era nel ritenere che l’impatto della caldissima stagione estiva nelle zone paludose del Mississippi, avrebbe decimato uomini provenienti da tutt’altra zona, quale la Virginia  - la divisione Pickett era interamente composta da virginiani, eccezion fatta per la brigata Jenkins, proveniente dal South Carolina- avvezzi a ben diverse temperature. A titolo comparativo, i soldati della divisione Breckinridge, reclutati nel Kentucky, stato assai simile climaticamente all’Old Dominion, soffrirono nella zona di Vicksburg, dopo un trasferimento di breve tempo nell’estate del 1862, una perdita del 31.2%, dovuta unicamente a malattie e al clima malsano (87). Con ogni probabilità, se non ci avesse pensato il piombo yankee, i virginiani avrebbero incontrato malaria, dissenteria, febbri di vario tipo, con immutato fato. Secondariamente, osservò, Lee, vi era una certa incertezza sul tempo dell’arrivo degli uomini di Pickett. Egli stimava che il trasferimento sarebbe terminato alla fine del mese: cioè circa tre settimane dopo la loro partenza. In realtà, era un dato del tutto irrealistico e Lee si mostrava molto ottimista. Il generale Longstreet, partendo dalla Virginia e solo per giungere a Chattanooga, nel Tennessee, nel settembre di quello stesso anno, aveva impiegato due settimane, tre considerando anche il parco artiglieria e il carriaggio per munizioni, cibo ed equipaggiamento delle singole brigate e/o divisioni; il tutto ad una velocità media di 6,5 chilometri orari. Sennonché giunti a Chattanooga, dopo aver percorso 750 miglia, gli uomini di Pickett non si sarebbero trovati che a poco più di metà del viaggio. Da qui, essi avrebbero dovuto infatti proseguire via Atlanta-Montgomery-Mobile-Meridian-Jackson: altre 650 miglia, alla folle velocità di 2,5 chilometri orari. Si trattava di un autentico tour de force, lungo una singola tratta ferroviaria, neppure continua in alcuni punti, con conseguente obbligo di trasferimento di uomini a piedi e mezzi a braccia per brevi tratti. La perdita dello snodo di Corinth, vero crocevia fondamentale per il controllo delle strade ferrate nel Dipartimento dell’Ovest, da parte dei confederati un anno prima, si dimostrava ora strategicamente cruciale. La divisione Stevenson, nel dicembre del 1862, per compiere lo stesso percorso, aveva impiegato tre settimane, quattro considerando i complementi d’artiglieria e logistici. Ma da quel tempo le cose erano ulteriormente peggiorate; si pensi che nel corso dell’intera guerra la Confederazione, per mancanza di materie prime, non fu in grado di sostituire un solo centimetro di tratte ferroviarie già esistenti, per comprendere in quali situazione di sfaldamento progressivo esse potessero trovarsi. Fatto sta che, secondo Johnston, la situazione era così deteriorata che il 10 maggio dell’anno successivo, egli scriveva al presidente Davis come “il nostro svantaggio in questa guerra è che il nemico può trasferire un’armata dal Mississippi al (…) [Tennessee Centrale] prima ancora che noi si sia in grado di scoprire che essa si è messa in moto, mentre un uguale unità  di nostre truppe con potrebbe compiere lo stesso movimento (o meglio, il corrispondente) in meno di sei settimane” (88).  Dunque anche ammettendo per pura ipotesi che la divisione Pickett (o meglio, parte di essa) fosse stata messa in moto per il 12 maggio, essa sarebbe giunta a Jackson, con molto ottimismo, circa 7 settimane dopo: vale a dire ai primi di luglio, quando ormai Vicksburg era in procinto di cadere, se non già in mano a Grant. Il rischio sarebbe stato di far viaggiare le truppe per oltre 1400 miglia vanamente: insomma, sottraendole alla Virginia, senza che però fossero di alcuna utilità nel Mississippi. Infine rimaneva l’interrogativo principale  e che, con molto tatto, Lee aveva indicato come un’incertezza circa l’impiego che si sarebbe fatto dei suoi uomini sul fronte occidentale. Con tutta serietà, si può credere davvero che un uomo come Joseph Eggleston Johnston, ricevuti 8.500 uomini di rinforzo, avrebbe mosso con decisione e audacia contro Sherman e Grant? In un mondo perfetto, forse; nella realtà, no. Perché, proprio questo, in fondo, è il punto cruciale dell’intera vicenda. Possiamo interrogarci a non finire su quale fosse il punto strategicamente più importante tra Vicksburg e Richmond, tra la Virginia e il Mississippi. E potremmo anche giungere alla conclusione che esso si trovasse all’ovest, sebbene chi scrive ritenga vero il contrario. Ma questo resterebbe un falso dilemma: rimarrebbe infatti il problema circa il comando delle truppe, qualunque fosse la soluzione scelta. All’Est, v’era il miglior generale del Sud e, forse, dell’intera guerra. A occidente si trovava un ufficiale che era ossessionato dall’idea di perdere fama e onore e che, a torto o ragione, si era convinto che il suo nemico principale si trovasse a Richmond e non a Washington. In definitiva, come ha osservato acutamente Richard McMurry, la scelta di Davis non fu tra “il fronte del Mississippi” o “il fronte della Virginia”, ma tra Robert Edward Lee e Joseph Eggleston Johnston (89). Posta questa alternativa, possiamo dubitare che Davis e l’alto comando confederato fecero la scelta giusta? Neppure per un istante. Il secondo problema sostanziale che evidenziava il piano Seddon e, più in generale, l’approccio strategico confederato, era quello della mancanza del tempo. I meridionali ne avevano disposizione poco, molto poco. Ma a fronte di ciò, essi si trovavano nell’impossibilità di poter collegare tra loro i vari dipartimenti e distretti con rapidità, a causa dello stato delle tratte ferroviarie, delle strade che attraversavano il Sud (in realtà, sorta di mulattiere o poco più) e della perdita di controllo dei fiumi principali che si trovavano sul teatro occidentale: in breve, quello schema pensato da Davis di coordinamento e collaborazione tra le varie forze dislocate a presidio del territorio e dei punti nevralgici, non poteva funzionare, se non a livello intra-dipartimentale o su distanze limitate, ovvero prevedendo con largo anticipo le mosse dell’avversario. Di contro, grazie ad una superiore logistica, ad una straordinaria capacità industriale e abilità della manodopera specializzata, al possesso dei fiumi Cumberland, Tennessee e Mississippi – che costituivano a tutti gli effetti tre lame conficcate nel cuore dell’occidente confederato - gli unionisti operavano di fatto per linee interne e con maggiore celerità, costringendo, paradossalmente, i confederati ad agire per linee esterne. Appare dunque quantomeno ingenua l’idea avanzata da Raimondo Luraghi, secondo cui i confederati per risolvere la crisi della primavera-estate, del 1863 avrebbero dovuto sfruttare la minor distanza teorica tra le loro armate, secondo il principio jominiano delle operazioni condotte per linee interne e della concentrazione (90). Un tale approccio, come ammoniva Lee nell’aprile 1863, non avrebbe funzionato: “il modo più semplice per rinforzare il generale Johnston [nel Tennessee centrale] sembrerebbe essere quello di trasferire una parte delle truppe da questo dipartimento per opporsi a quelle [federali] inviate ad ovest, ma non è così facile per noi trasferire truppe da un dipartimento all'altro come lo è per il nemico, e se ci basiamo su questo metodo arriveremmo sempre troppo tardi” (91); un punto, quello della superiorità nel trasferimento delle truppe da parte degli unionisti, che un acuto commentatore qual era il generale Edward Porter Alexander, non mancherà di sottolineare, annotando che i settentrionali "devono il loro successo finale alla precisione con la quale combinano alcuni dei loro maggiori movimenti, i quali rappresentano modelli di logistica - la scienza di muovere le le armate" (92). Lo stesso problema, come visto più sopra, sottolineato da Johnston. I due ufficiali posti al comando delle principali armate confederate, dunque, indipendentemente l’uno dall’altro, avevano colto l’estrema difficoltà - se non addirittura impossibilità - di pensare il sistema difensivo sudista in termini di trasferimento di forze da un dipartimento all’altro su vaste distanze. Ciò non significa, ovviamente, che i meridionali non potessero agire sfruttando il vantaggio apparente delle linee interne: ma lo potevano fare su scala chilometrica limitata e a livello interdipartimentale. Posto ciò vi erano tre zone in cui il trasferimento di truppe avrebbe potuto funzionare, se adottato per tempo e con una certa dose di preveggenza: dalla Virginia al Tennessee centrale (o viceversa), dal Mississippi al Tennessee centrale (o viceversa) e tra i due lati del fiume Mississippi (o viceversa). In un solo punto, però, il territorio nemico si trovava a breve distanza, si poteva sfruttare l’esistenza di uno sbocco naturale su di esso coperto dalla conformazione orografica circostante  (la valle dello Shenandoah)  e la concentrazione delle forze avrebbe potuto operarsi con estrema velocità, anche grazie all’esistenza di strade e tratte ferroviarie discretamente diffuse ed efficienti. Ed esso era la Virginia Settentrionale. Quale che fosse la giusta soluzione, per il momento le obiezioni di Lee furono accettate in toto da Davis, il quale letta la risposta via telegrafo del generale la sottoscrisse con le seguenti parole “la risposta del generale Lee è quella che avevo previsto ed è pienamente conforme al mio pensiero” (93). Lee sembrava aver vinto il primo round: ma di lì a pochi giorni sarebbe confrontato di nuovo con chi accarezzava il progetto di inviare rinforzi nel Mississippi.

Note alla parte 3
(61) I dati quivi riportati e quelli successivi si riferiscono ai “present for duty” e non agli “effectives”: per la differenza cfr. R. Luraghi, Storia della guerra civile americana cit., pp. 362-63, n.8; per le cifre vedi OR, vol. 24, pt. 3 pp. 163, 702; vol. 15, pt. 2 pp. 180, 696; vol. 23 pt. 2 pp. 197, 733.
(62) J. E Johnston a L.T.Wigfall, 4 dicembre 1862, presso i Wigfall Papers conservati nella libreria del Congresso a Washington . Per la querelle Johnston-Davis sul rango del generale, si veda su questo stesso forum http://guerracivileamerican.forumattivo.com/t978-joseph-eggleston-johnston-un-enigma.
(63) OR, vol 17, pt.2, p.759.
(64) J. Davis a V. Davis, 24 giugno 1862, originale presso il Museum of the Confederacy, Richmond. Cfr. anche sulla tematica S.H. Newton, “< >. Johnston, Davis and Seven Pines” in W.J.Miller (a cura di) The Peninsula Campaign of 1962: from Yorktown to Seven Days, 3 voll., New York: Da Capo Press, 1992, vol.3., pp.60-79.
(65) OR vol.17, pt. 2, p.781; vol. 20, pt. 2, pp.441, 447; si noti che il piano dettagliato fu esposto da Johnston a Wigfall, invece che a Davis, come avrebbe dovuto essere: si veda, lettera del 15 dicembre 1862, presso i Wigfall Papers conservati nella libreria del Congresso a Washington.
(66) Cfr. D. Rowland (a cura di) Jefferson Davis, Constitutionalist: His Letters, Papers and Speeches, cit. vol. 5, pp. 583-84.
(67) J.E. Johnston a L.T. Wigfall, 26 gennaio 1863 in D.G. Wright (a cura di), A Southern Girl in 61’- The War Time Memories of a Confederate Senator’s Daughter, New York: Doubleday, Page & Co., 1905, pp.121-22.
(68) Sull’intera vicenda e i rapporti Davis-Holmes, si veda S.E. Woodworth, “Dismembering the Confederacy: Jefferson Davis and the Trans Mississippi West” in ID., No Band of Brothers. Problems of the Rebel High Command cit. pp. 51-70.
(69) J.E. Johnston a J. Davis, n.d. ma risalente al periodo 10-31 gennaio 1863, in PJD, vol.9, p.19.
(70) J.E. Johnston a L.T. Wigfall, 26 gennaio 1863, in D.G. Wright (a cura di), A Southern Girl in 61’- The War Time Memories of a Confederate Senator’s Daughter cit., p. 123.
(71) Per la documentazione vedi OR vol.20, pt.1, pp. 682-84, 699, 701-02; vol.23, pt. 2, pp.613-14; vol. 52, pt.3, pp. 410-18.
(72) J.E.Johnston a J.Davis, 3 febbraio 1863, in PJD, vol. 9, pp. 48-9.
(73) J. Seddon a J.E. Johnston, 5 febbraio 1863, OR ,vol.21, pt. 2, pp.626-27.
(74) Cfr. C.L. Symonds, Joseph E. Johnston: A Civil War Biography, New York: W. W. Norton & Company, 1992, p.197.
(75) J.E. Johnston a J. Davis, 12 febbraio 1863, in PJD, vol.9, pp.59-60.
(76) Sull'intera questione vedi T.L. Connelly, Autumn of Glory: the Army of Tennesse 1862-1865 cit., pp. 77-92.
(77) C.L. Symonds, Joseph E. Johnston: A Civil War Biography cit., pp.196-97.
(78) Annotazione del diario del 27 febbraio 1863 in E. Younger (a cura di), Inside the Confederate Government: the Diary of Robert Garlick Hill Kean, Head of the Bureau of War, New York: Oxford University Press, 1957, p.50.
(79) J.E. Johnston a L.T.Wigfall, 8 marzo 1863, nei Wigfall Papers presso la Libreria del Congresso, Washington.
(80) R.M.McMurry, “The Pennsylvania Gambit and the Gettysburg Splash" in G.S. Boritt (a cura di), The Gettysburg Nobody Knows, New York: Oxford University Press, 1997, p. 191.
(81) Cfr. G. Govan & J. Livingwood, A Different Valor: The Story of General J.E. Johnston, New York: Bobbs &Merrill, 1956, p. 210; A.T. King, Louis T. Wigfall: Southern Fire-Eater, Baton Rouge: Louisiana State University, 1970, pp. 172-73.
(82) Si noti bene che al 6 maggio la divisione Pickett era divisa in due tronconi : tre brigate si trovavano a Richmond, mentre due erano nel North Carolina a disposizione del generale D.H.Hill, sicché non è ben chiaro se Seddon intendesse trasferire l’intera divisione o solo le unità che si trovavano nella capitale confederata ad immediata disposizione. In tal ultima evenienza, solo 5.500 uomini avrebbero dovuto raggiungere Vicksburg.
(83) OR, vol. 25, pt 2, p.790.
(84) Ibidem.
(85) Sul tema si veda R.M.McMurry, "Marse Robert and the Fevers" in J.T.Hubbell (a cura di),Conflict and Command, Kent, OH: The Kent State University Press, 2012, pp. 255-265.
(86) Ibidem, p.258
.(87) Ibidem, p.263.
(88) OR, vol. 23, pt. 2, p.745.
(89) R.M.McMurry, “The Pennsylvania Gambit and the Gettysburg Splash" in G.S. Boritt (a cura di), The Gettysburg Nobody Knows cit., p. 199.
(90) R. Luraghi, La Guerra Civile Americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, cit. p.101.
(91) R.E. Lee a J. Seddon, 9 aprile 1863, OR vol. 23, pt.2, p. 714.
(92) G. W. Gallagher (a cura di), Fighting for the Confederacy: The Personal Recollections of General Edward Porter Alexander, Chapel Hill: North Carolina University Press, 1989, p. 349.
(93) OR vol. 23, pt.2, p. 790.

4.Il blocco occidentale si muove: i piani per un’offensiva nel Tennessee.
Ciò che Lee non espose replicando al segretario alla guerra fu, appunto, la propria convinzione che si dovesse assumere l’offensiva sul teatro orientale, invadere il territorio della Pennsylvania e in tal modo indurre il governo federale a richiamare truppe dall’ovest, di fatto annullando l’azione di Grant contro Vicksburg. Con ogni probabilità, per il 10 maggio, il generale confederato non aveva ancora  maturato pienamente le proprie intenzioni. Chi invece sembrava aver le idee chiare al riguardo, era il generale James Longstreet. Reduce dalla sfortunata (e invero molto poco brillante) campagna di Suffolk, diretto a Fredericksburg ove si trovava concentrato il grosso dell’Armata della Virginia Settentrionale, trovandosi a passare per Richmond il 6 maggio, egli ebbe modo di confrontarsi con Seddon circa il modo migliore per salvare Vicksburg. Udita la proposta del segretario alla guerra confederato - vale a dire, come detto, l’urgente raccolta qua e là di rinforzi da spedire nel Mississippi - Longstreet replicò esponendo un piano totalmente diverso. Invece di agire sulla difensiva, sottolineò come il modo migliore di distrarre truppe unioniste dal settore del fiume Mississippi, fosse quello di inviare parte del suo corpo d’armata (divisioni Pickett e Hood, circa 20.000 uomini) nonché le truppe stanziate a Jackson (circa 6.000 uomini) nel Tennessee e una volta unite queste con quelle di Bragg sotto il comando di Johnston, prendere risolutamente l’iniziativa,   attaccando Rosencrans. Dopo aver sorpreso e sbaragliato costui, l’armata confederata avrebbe dovuto puntare su Cincinnati, nell’Ohio; così facendo, egli concluse, le autorità unioniste sarebbero state costrette a richiamare Grant e la sua armata in fretta e furia da Vicksburg per inviarlo immediatamente contro le colonne di invasione meridionali. Non era un’idea nuova per Longstreet, avendo già proposto un piano simile nel febbraio precedente. Ad ogni modo, Seddon replicò sostenendo che un uomo ostinato come Grant, molto difficilmente avrebbe cambiato i propri piani per soccorrere Cincinnati. Al che Longstreet sottolineò che il generale unionista era pur sempre un soldato e in quanto tale avrebbe obbedito agli ordini del comando supremo federale (94). Non sappiamo se la proposta dell’ufficiale confederato sia stata posta all’attenzione di Davis o altri membri del governo sudista; al riguardo, la memorialistica dei protagonisti, tace. V’è dunque da credere che essa sia stata accolta come una semplice boutade da Seddon e nulla più; del resto, tutti gli occhi erano puntati su Vicksburg e in quei momenti a nessuno sfuggiva il fatto che l’alternativa fosse tra Mississippi e Virginia. Ciò che appare invece certo, è come Longstreet nel corso dei giorni successivi, ossia tra l’11 e il 13 maggio, ebbe modo di discutere approfonditamente con Lee del proprio piano, sperando in tal modo che il suo diretto superiore potesse appoggiare l’idea presso l’alto comando confederato e convincere quest’ultimo ad adottarlo. Lee dopo aver riflettuto a lungo sulla bontà e sulle prospettive del piano avanzato da Longstreet, propose a costui una differente opzione: invadere il Nord, minacciare Washington e in questo modo incutere un tal timore nei vertici federali da costringerli a richiamare ogni truppa disponibile a difesa della capitale, comprese quelle al comando di Grant. Nella mente di Lee, prendeva forma quel disegno che di lì a  poco, come vedremo a breve, egli avrebbe esposto direttamente al governo confederato. Ad ogni buon conto, Longstreet nelle proprie memorie di guerra, redatte assai più tardi, nel 1896, sostenne che, preso atto dell’ostinata convinzione di Lee, non ritenne opportuno insistere oltre  - lasciando intendere al lettore, insomma, che pur convinto della bontà e superiorità della propria proposta, non desiderasse comunque scontrarsi con il suo diretto superiore e quasi obtorto collo abbia finito con il soprassedere - limitandosi a richiedere al suo comandante di adottare una condotta operazionale basata sulla tattica difensiva, una volta che si fosse giunti a contatto sul terreno con il nemico. In nessun modo e per nessuna ragione, l’armata confederata avrebbe dovuto attaccare gli unionisti, ma scegliere una posizione simile a quella di Fredericksburg e aspettare l’assalto federale. Strappato un assenso da parte di Lee alla proposta (anzi, una sorta di elogio per l’illuminazione ricevuta), egli si mostrò pienamente soddisfatto (95). La controversia di Gettysburg, ancor oggi oggetto di accesi dibattiti fra studiosi o semplici appassionati e la cui analisi ci condurrebbe assai lontano rispetto agli scopi di questo breve scritto, germogliava. Fatto sta che all’epoca, Longstreet, corrispondendo con il senatore Wigfall, non solo mancò di far cenno alcuno a presunte promesse o assensi di Lee alle sue idee, ma si mostrò entusiasta del piano esposto da costui, tanto da credere che ogni sforzo dovesse concentrarsi nella preparazione dell’offensiva, che riteneva decisiva per le sorti della guerra stessa. Di più: egli si spingeva ad ammettere che quando aveva esposto la propria proposta a Seddon (e allo stesso Wigfall) circa il trasferimento di truppe nel Tennessee, Longstreet aveva agito “sotto l’impressione che noi saremmo stati costretti a rimanere sulla difensiva qui [in Virginia]”; ma ora, proseguiva, udito il piano di Lee, lo approvava in toto, raccomandando di non “sottrarre nulla da questa armata per rinforzare l’Ovest”. A tal punto egli sembrava convinto delle bontà della proposta del suo comandante da richiedere a Wigfall che si adoperasse in ogni modo per rinforzare l’Armata della Virginia Settentrionale, dicendo che con 150.000 uomini, si sarebbe riusciti a piegare l’esercito unionista in una battaglia campale, costringendo Lincoln a chiedere la cessazione delle ostilità (96). Longstreet, prima di mutare completamente idea, non era stato il solo a proporre che i confederati dovessero concentrarsi nel Tennessee centrale; anche il generale Beauregard, che si trovava a Charleston per coordinare le locali difese, già da tempo accarezzava l’idea di sfruttare l’indecisione di Rosencrans oltre una disparità di forze apparentemente meno marcata rispetto ad altri teatri di guerra, per assumere risolutamente l’offensiva colà. Il 15 maggio, di conseguenza, decise di esporre per lettera al generale Johnston le proprie idee, in modo che costui, a sua volta, le presentasse al governo confederato: o meglio, in maniera tale da far credere che l’autore di quel mirabolante piano, fosse Johnston stesso (97). Il giorno successivo, per vero, il generale creolo accluse copia della lettera inviata a Johnston e la spedì ad un altro membro del blocco occidentale, l’onnipresente senatore Wigfall, con una breve nota di accompagnamento e una specifica raccomandazione: esponesse quel piano ai vertici della Confederazione, senza però fare il suo nome come l’autore che lo aveva ideato; aggiungendo, con un pizzico di teatralità, che, diversamente, il suo audace disegno avrebbe fatto la stessa fine dei Capuleti (98). In effetti, i rapporti personali tra Beauregard e Davis erano divenuti così cattivi, che il generale creolo non aveva neppure il coraggio di scrivere al Presidente ed esporre le proprie idee strategiche. Che cosa proponeva dunque Beauregard? Bisognava immediatamente e con grande audacia muovere all’offensiva nel Tennessee centrale: colà Johnston, alla guida dell’armata di Bragg, rinforzata da altri 25.000-30.000 uomini doveva attaccare Rosencrans e sbaragliarlo a Murfreesboro; nel piano esposto a Johnston (e Wigfall) non veniva indicata la provenienza dei rinforzi, ma in una missiva successiva di pochi giorni dopo diretta ad un altro suo sodale, come vedremo a breve, e in una nota aggiuntiva del 21 giugno, Beauregard specificò che si dovevano trarre dalla Virginia, mediante trasferimento di parte del corpo di Longstreet nel Tennessee, da sommare con le truppe che egli stesso aveva già inviato nel Mississippi, a Johnston stesso, ai primi di maggio (poco meno di 10.000 uomini, con 7 batterie d’artiglieria).Peraltro, tutto ciò, aggiungeva, rappresentava solo l’inizio. Una volta annientato Rosencrans, parte della popolazione del Kentucky e del Tennessee (quella filo sudista, cioè) si sarebbe certamente sollevata e avrebbe potuto essere reclutata nelle fila dei meridionali: complessivamente non meno di 30.000 uomini, calcolava Beauregard. Costoro sarebbero rimasti a presidiare il territorio riconquistato, mentre il grosso dell’armata avrebbe decisamente puntato verso il Mississippi per tagliare le linee di rifornimento di Grant, costringendolo a ritirarsi, oppure, se il generale unionista fosse stato così ostinato da resistere sul posto, per annientarlo in battaglia. Tutto ciò, egli calcolava, nel giro di sei settimane. Ma non bastava ancora. Una volta liberatisi di  Grant, i confederati potevano puntare  a loro scelta verso la Louisiana e il Trans-Mississippi e unirsi a Kirby Smith, ovvero rinforzare le truppe rimaste nella Virginia. Contestualmente, fantasticava Beauregard, una flottiglia di battelli speciali costruiti in Inghilterra doveva ridiscendere il Mississippi e riprendere New Orleans, catturando o facendo arretrare Banks. Come si può notare di primo acchito, il piano costituiva una sorta di strategia generale per vincere la guerra, più che un’idea per risolvere temporaneamente la crisi verificatasi sul Mississippi. Come cennato, per completezza d’indagine occorre dire che il successivo 26 maggio in una lettera diretta al senatore Charles Jacques Villeré, eminente uomo politico della Louisiana ed ex cognato del generale creolo, Beauregard, con tutta probabilità cosciente del fatto che nessuno si era preso la briga di esporre i suoi piani presso l’alto comando confederato, aveva ribadito per sommi capi le proprie convinzioni in materia, sperando forse, questa volta, di trovare qualcuno disposto a dargli retta (99). Evidentemente deluso da Johnston, il quale aveva ben altri grattacapi da risolvere che tempo da perdere per esporre le idee di Beauregard al governo confederato, questa volta Beauregard più realisticamente si limitava a suggerire che fosse Bragg (o chi per lui, senza però far nomi precisi) a condurre l’offensiva nel Tennessee; ad esso si sarebbero dovuti aggiungere 30.000 uomini provenienti dalla Virginia e sottratti a Lee il quale avrebbe dovuto rimanere passivamente sulla difensiva. Con questa poderosa forza, sottolineava Beauregard, Rosencrans sarebbe stato respinto nell’Ohio. A quel punto altri uomini si sarebbero aggiunti tra la popolazione di sentimenti filo-confederati dal Kentucky e dallo stesso Tennessee. Sfruttando la presenza di un supposto sentimento contrario alla guerra con il Sud presente tra il popolo unionista in quei territori e nei vicini stati dell’Indiana, Illinois e Missouri, grazie anche alla presenza e influenza in quella zona del potente uomo politico settentrionale Clement Vallandigham, da sempre fautore di una politica della pace con il Sud, e della (presunta) diffusione delle sue idee, concludeva Beauregard, l’intero Nord-Ovest si sarebbe sollevato contro il governo federale nordista, aprendo la via per la fine della guerra. Queste dunque erano le idee del generale creolo. Come anticipato, pare però che nessuno le espose a Davis né ad altri membri del governo confederato: la coeva documentazione e la memorialistica dei protagonisti di questa intricata vicenda, al riguardo, tacciono. Con tutta probabilità, né Johnston, né Wigfall e tantomeno Villeré presero troppo sul serio il piano di Beauregard. Una lettera risalente al 1° luglio diretta a Johnston, lamentava come ormai fosse tardi per adottare quella sua proposta: a dimostrazione che evidentemente, nessuno dei suoi interlocutori si fosse incaricato di esporre le vedute del generale creolo all’alto comando confederato (100). D'altra parte, come qualcuno ha suggerito, forse con un po’ di esagerazione, se il presidente confederato fosse stato posto a conoscenza del  disegno strategico proposto da Beauregard si sarebbe fatto una risata di cui tanto aveva bisogno in quei tragici momenti per il destino del Sud (101). Di sicuro, il piano presentava tali e tanti problemi, oltreché incognite, da risultare difficilmente realizzabile e, soprattutto, da far conseguire qualche reale vantaggio alla Confederazione. Anzitutto, anche rinforzata di 30.000 uomini, l’armata di Bragg si sarebbe trovata solo di poco in stato di superiorità numerica sul nemico. Rosencrans al 20 maggio, disponeva di  79.977 uomini; Bragg di 54.951. Ma nelle immediate vicinanze, nel Kentucky, i federali avevano alla mano ben altri 37.992 soldati (102). Sicché l’inferiorità unionista sarebbe durata ben poco. Peraltro un concentramento di quelle proporzioni avrebbe con ogni probabilità destato i sospetti delle spie unioniste e allertato per tempo Rosencrans sulle intenzioni del nemico. Secondariamente, i meridionali in quel teatro (al pari, d'altro canto, della zona del Mississippi, dopo la cattura di Jackson e la distruzione dello snodo ferroviario operata dagli unionisti nella capitale dello stato e, come vedremo, dello stesso Lee) si trovavano in gravissime difficoltà logistiche. Nella tarda primavera del 1863, sottolinea al riguardo lo storico Thomas L. Connelly, l’armata di Bragg era praticamente immobilizzata dalla necessità di impiegare l’intero   parco vagoni per reperire cibo e rifornimenti per il suo sostentamento nell’arco di 300 chilometri (103). Anche il grandioso progetto ideato da Johnston, vale a dire servirsi dell’intera cavalleria di Forrest e Van Dorn, per operare sulle linee di sussistenza unioniste e impedire lo sviluppo di offensive da parte loro distruggendone i rifornimenti, era andato a farsi benedire a causa della necessità di impiegare ogni cavalleggero disponibile lungo l’intero territorio del Tennessee alla ricerca disperata di risorse per il vettovagliamento dell’esercito (104).  Insomma l’arrivo di 30.000 uomini da sfamare e foraggiare di ogni complemento, avrebbe aggravato quella situazione già estremamente difficile e precaria. In terzo luogo e soprattutto, un tal piano avrebbe richiesto che alla guida dell’armata fosse posto un ufficiale estremamente audace, il quale perdesse poco tempo in chiacchiere e discussioni sul da farsi e muovesse decisamente all’offensiva sia sul piano tattico che strategico. Quell’ufficiale non poteva certo essere per indole, precedenti e convinzioni strategico-tattiche, Joseph Eggleston Johnston: tanto più dopo aver rifiutato il comando dell’Armata del Tennessee per ben due volte. Chi avrebbe potuto, allora, guidare l’esercito? Il nome di Lee non solo fu escluso esplicitamente da Beauregard, ma neppure velatamente suggerito, sicché non veniva in questione. Rimaneva, dunque, Braxton Bragg. Ma costui, si trovava all’epoca in condizioni  prossime al collasso: con il fisico minato da un’imperfetta salute, l’autorità delle sue decisioni e opinioni messa in discussione, se non addirittura alla berlina, da un corpo ufficiali che nella stragrande maggioranza dei casi lo detestava, Bragg, nel maggio 1863 “era sull’orlo di una crisi di nervi” (105). D’altronde, anche fosse stato in grado di condurre l’armata, egli sarebbe riuscito a prevalere  in modo schiacciante su Rosencrans, come sognava Beauregard? Molto difficilmente, come avrebbe dimostrato la successiva campagna di Chickamauga, in cui il generale unionista, è vero, fu sconfitto, ma tutt’altro che annientato e disfatto; anzi, le perdite confederate furono terrificanti, persino superiori a quelle del nemico: oltre 18.000 tra morti feriti e dispersi. Bragg non difettava certo di aggressività, di coraggio morale e neppure di solide vedute strategiche, ma come tattico non brillava e quelle intuizioni sul campo di battaglia ch’egli possedeva, venivano in ogni caso vanificate dal comportamento dei suoi subordinati: o per meglio dire, insubordinati, dato il numero di occasioni in cui si rifiutarono di eseguirne gli ordini. Peraltro proprio quell’episodio, ci indica come il comando di Bragg (o meglio, il suo personale carisma) sarebbe stato ulteriormente indebolito dall’arrivo di un uomo come Longstreet, il quale, quanto ad ambizioni e a desiderio di far le scarpe ai propri superiori, si era dimostrato secondo a nessuno. Insomma, anche avesse conseguito una vittoria tattica sull’Armata del Cumberland, Bragg avrebbe esaurito ogni prospettiva strategica in quell’isolata, ma irrisolta, affermazione, aggravando solo quella che era la ituazione di dissidio all’interno dell’Armata del Tennessee, sempre più simile ad un covo di comari petulanti e inacidite piuttosto che ad un gruppo di devoti e capaci ufficiali. In sintesi, il disegno di Beauregard assomigliava più ad una splendida intuizione onirica, piuttosto che ad un concreto congegno per scardinare l’iniziativa federale nel Mississippi. Del resto, chi avrebbe garantito alla Confederazione che gli unionisti non avrebbero, a loro volta, applicato quel medesimo schema di concentrazione delle truppe per muovere in Virginia, verso Richmond e sopraffare Lee, le cui forze sarebbero state indebolite all’estremo? Un uomo come Hooker, il quale poteva anche difettare di grande sagacia tattico-strategica, ma non certo di coraggio ed iniziativa, difficilmente si sarebbe lasciato scappare un’occasione simile, spinto e incitato oltretutto dallo stesso presidente Lincoln, il quale, come è risaputo, si era fatto una specie di ossessione di aver ragione di Lee e dell’Armata della Virginia Settentrionale. In definitiva, quell’iniziativa proposta da Beauregard, se lasciata a metà, come probabile e dimostrato dagli eventi successivi, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, con una sconfitta tattica di limitate proporzioni di Rosencrans, avrebbe potuto condurre la Confederazione sull’orlo di una gigantesca Canne globale: l’accerchiamento sulle ali (Mississippi e Virginia) delle armate sudiste isolate al centro e già avanzate in territorio nemico (Tennessee, Kentucky e Ohio). In fondo, che la proposta di Beauregard non sia stata neppure discussa, fu quasi una fortuna: chissà mai che qualche lambiccato cervello potesse dar lui retta.

Note alla parte 4
(94) J. Longstreet, From Manassas to Appomattox, Philadelphia: Lippincott. 1896, pp. 327-328.
(95) Ibidem, p.331. Circa il contenuto del colloquio esistono altre due versioni dettagliate consegnateci dallo stesso Longstreet, vale a dire quella contenuta nell’articolo “Lee in Pennsylvania” in A.R. McClure (a cura di), Annals of the War, Written by Leading Partecipants North and South, Philadelphia: Times Publishing, 1879, pp. 417-18 e un’altra anteriore espressa in una lettera del 25 luglio 1873 diretta a Lafayette McLaws, ora integralmente riprodotta in R. Rollins, “The Ruling Ideas’ of the Pennsylvania Campaign” in Gettysburg Magazine nr. 17, 1997, pp.7-16. Il tono e il contenuto di quest’ultimo documento appaiono più sinceri delle altre versioni ed esaminando la missiva, si ha l’impressione che Longstreet si sia limitato ad esporre le sue vedute a Lee senza ottenere alcuna specifica approvazione, ma un semplice assenso di massima.
(96) J. Longstreet a L.T. Wigfall, 13 maggio 1863, presso i Wigfall Papers conservati nella Libreria del Congresso, Washington.
(97) Cfr. OR vol. 23, pt.2, pp. 836-37. Il documento è integralmente riportato e tradotto nell'Appendice.
(98) Ibidem, p.839.
(99) Cfr. OR vol. 14, p. 955.
(100) OR, vol. 28 pt. 2 pp.173-74.
(101) R.M.McMurry, “The Pennsylvania Gambit and the Gettysburg Splash" in G.S. Boritt (a cura di), The Gettysburg Nobody Knows, cit., p. 193.
(102) Per i dati si veda OR vol. 23, pt. 2, pp. 379 e 846.
(103) Sulla situazione dell'armata del Tennessee  cfr. OR vol. 23 pt. 2 pp. 757-58 e 779; T. L.Connelly, Autumn of Glory cit., p. 126.
(104) Cfr. A.Jones, Confederate Strategy from Shiloh to Vicksburg, Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1961, pp. 157 ss.
(105) T. L.Connelly, Autumn of Glory cit., p.74.

5.L'offensiva nel Nord: il disegno strategico di Lee.
Il giorno stesso in cui Beauregard si accingeva a scrivere al generale Johnston, Lee veniva convocato in tutta fretta a Richmond. Le notizie provenienti dal Mississippi si facevano più tragiche di ora in ora. Dopo la sconfitta di Raymond, la città di Jackson, era stata sgomberata di furia da Johnston ed era caduta in mano ai federali; Grant si trovava ora incuneato tra Johnston e Pemberton, che si sapeva essere uscito in forze da Vicksburg per dar battaglia agli unionisti. Ma ci si doveva preparare al peggio. Discutere e decidere sul da farsi insieme a Lee in quei frangenti, era esattamente lo scopo del consiglio di guerra convocato dal presidente Davis nella capitale confederata per metà maggio. Sebbene, come è stato annotato, non sia stata redatta alcuna minuta delle opinioni espresse dai vari partecipanti, possiamo ricostruire con sufficiente grado di certezza, in base ai diari tenuti da John Beauchamp Jones, un impiegato presso il ministero della guerra confederato, e dal Ministro delle poste sudista John H. Reagan, oltre che dall’ampia memorialistica a disposizione e dalla coeva corrispondenza, lo svolgersi degli eventi e quelle che furono le linee essenziali del dibattito, le proposte e opzioni sul tavolo (106). Sappiamo perciò, che prima di riunire il gabinetto ministeriale, il 15 maggio, Davis procedette ad una serie di colloqui preliminari e individuali con Lee stesso e con i generali “Jeb” Stuart (comandante la cavalleria dell’Armata della Virginia Settentrionale) e Samuel G. French; dopodiché, probabilmente per l’intero corso della restante giornata, Davis si appartò alla presenza di Lee, il quale agiva anche nelle sue vesti di consigliere militare del Presidente, e del Segretario alla guerra Seddon. Ciò che appare sicuro è come nessuno né prima, né durante, né, tantomeno, nelle successive riunioni del gabinetto Davis, fece cenno alcuno alla possibilità di inviare Lee nell'ovest, Mississippi o Tennessee che fossero, e porlo al comando delle forze colà dislocate; altrettanto sicuro è, come abbiamo già detto, che la proposta del generale Beauregard non solo non venne esaminata ma neppure formò oggetto di un qualsiasi esame. Quali furono le alternative poste sul tappeto, è, dunque, ben chiaro. Da una parte l’idea di trasferire la divisione Pickett, ribadita con forza da Seddon; dall’altra, le argomentazioni già espresse per lettera da Lee per opporsi al piano del segretario alla guerra. Ora, però, il condottiero virginiano aggiunse un nuovo elemento nella discussione: la proposta di un piano strategico-operazionale per invadere la Pennsylvania con la propria armata e portare la guerra sul territorio nemico; in tal modo, spiegò Lee, veniva a cadere l’alternativa Mississippi-Virginia: una volta minacciati i maggiori centri politico-industriali del Nord ossia Philadelphia, Washington o Baltimora, era logico credere che il governo federale sarebbe corso ai ripari, richiamando truppe anche da occidente, garantendo così, almeno per il  momento, la salvezza di Vicksburg. Altrimenti, ammonì Lee, si correva il rischio di finire assediati doppiamente, ossia sulle estreme del complessivo schieramento strategico confederato: a Vicksburg e a Richmond, ove egli avrebbe dovuto probabilmente ritirarsi per fronteggiare Hooker, ora assai più forte di lui. La linea del Rapidan-Rapahannock per motivi logistici non poteva più essere tenuta, egli aggiunse. In effetti, sin dall’inizio dell’anno, Lee si era dovuto confrontare con una gravissima crisi nel sostentamento dell’armata. In pratica, mancava il cibo per gli uomini e gli animali; particolarmente acuta si era fatta la crisi per il foraggio degli equini e senza di essi, l’esercito si trovava immobilizzato.  Il 13 febbraio, corrispondendo con Davis, Lee aveva specificato che “i nostri cavalli e muli sono ridotti in tali condizioni che al [loro] lavoro o all’esposizione ad un attacco conseguirebbe la loro distruzione e ci lascerebbe privi di mezzi di trasporto” (107). Cinque giorni più tardi, Lee decideva di distaccare Longstreet e parte del suo corpo d’armata (divisioni Hood e Pickett) a sud del fiume James e vicino a Suffolk, per permettere loro di approvvigionarsi in una zona ancora relativamente ricca di beni. Con l’arrivo della primavera, la situazione era però persino peggiorata. In Virginia, il rigido inverno del 1862-63, aveva provocato un grave colpo all’agricoltura e al raccolto primaverile: l’inefficiente sistema di sostentamento centralizzato confederato, adesso non appariva in grado di fronteggiare le più elementari necessità degli uomini. Semplicemente, come è stato annotato, all’inizio del 1863 “la Virginia non era più a lungo in grado di sostenere l’armata” (108). Unica soluzione, disperdere l’esercito lungo il territorio e farla vivere, qua e là, dei beni delle poche zone ancora fertili. In una lettera alla moglie, il 3 aprile - e successivamente, il 16 aprile, negli stessi termini a Davis - Lee confessava che l’armata era “senza foraggiamento e approvvigionamenti e non potrà essere tenuta unita a lungo per mancanza di cibo” (109). Per quel motivo, non si era potuto richiamare Longstreet. In breve, l’esercito non poteva fronteggiare in modo compatto il nemico lungo una linea difensiva avanzata. “Avessi avuto l’intera armata con me – si lamenterà Lee con il generale Hood, dopo Chancellorsville – il generale Hooker sarebbe stato demolito” (110). Dunque, privato di parte delle sue forze, senza possibilità di tenere a lungo il fronte sul Rapidan per i motivi dianzi esposti, Lee non avrebbe avuto alternative, alla lunga, se non arretrare sino a Richmond. In questo caso, egli avrebbe in gran parte risolto i propri problemi logistici; non che nella capitale si vivesse il problema della fame con meno preoccupazione; ma, quantomeno, nelle sue vicinanze, il sistema logistico confederato non si sarebbe dovuto confrontare con il vetusto sistema viario sudista. Tuttavia, un’eventuale guerra di assedio, senza alcuna libertà di movimento per la sua armata, era ciò che Lee paventava maggiormente: i superiori numeri del nemico, la sua potenza di fuoco e ingegneristica avrebbero condotto alla lunga alla resa della città o alla distruzione dell’esercito, come avrebbe dimostrato la campagna di Grant un anno più tardi. Memore del bagno di sangue subito nel corso della campagna dei Sette Giorni, allorquando, cioè, egli si era visto costretto ad assumere un atteggiamento operazionale e tattico improntato ad un’estrema e costante aggressività, conscio del fatto che nell’occasione poté disporre di un’armata sufficientemente forte per affrontare quel rischio, ma che ora, con la partenza di Pickett e in seguito alle perdite subite a Chancellorsville, questa stessa armata si sarebbe ridotta quasi alla metà di quella allora disponibile, Lee si opponeva fermamente a un tal prospettiva. Restare sulla difensiva sulla linea del Rapidan-Rapahannock, quand’anche fosse stato possibile, d’altro canto, non bastava a mutare le sorti del conflitto. Certo a Chancellorsville, Lee aveva riportato una grande vittoria, pur privo di quasi metà dei suoi uomini; ma non si poteva contare sui miracoli di Lee per battere in ogni circostanza gli unionisti. Prima o poi, egli ammoniva, Lincoln avrebbe trovato un ufficiale in grado di “capirlo”. E a quale prezzo, del resto? Mentre i settentrionali si ritiravano dopo ogni sconfitta, si leccavano le ferite, si riorganizzavano e ritornavano sotto, ancor più forti numericamente, i confederati contavano le perdite e si domandavano come rimpiazzarle. Anche Fredericksburg, una vittoria all’apparenza facile e che i sostenitori della strategia difensiva avevano indicato come un modello da seguire, non aveva cambiato il corso della guerra. Il perché, Lee lo aveva indicato a Seddon nel gennaio di quello stesso anno, spiegando che i numerosi rinforzi ricevuti dagli unionisti dopo la loro  disfatta e l’incapacità di incalzarli immediatamente da parte del suo esercito, dividevano una semplice sconfitta del nemico, dalla sua distruzione; e così “le vite dei nostri soldati sono troppo preziose per essere sacrificate nel raggiungimento di successi che non infliggono alcuna perdita al nemico al di là delle perdite subite in battaglia. Ogni vittoria ci deve portare più vicino alla fine che è lo scopo da raggiungere di questa guerra” (111). No, pensava Lee, questa volta, occorreva qualcosa di più. Occupare il Nord e conquistarlo, era fuori questione. Ma invaderlo e, se del caso, affrontare e battere il nemico sul suo stesso suolo avrebbe procurato numerosi vantaggi che Lee, con ogni probabilità, espose ai suoi interlocutori. In primo luogo, egli avrebbe risolto temporaneamente i problemi di approvvigionamento che attanagliavano la sua armata sino al punto, come visto, da doverla disperdere un po’ ovunque. Considerata la ricchezza e fertilità delle terre a Nord del Potomac, c’era di che sfamare in abbondanza i suoi uomini; si trattava, in sostanza, dello stesso principio che Grant, stava contemporaneamente applicando nel Mississippi - e che molti decenni prima, a dir il vero, aveva già utilizzato Napoleone nel corso delle proprie campagne, specie in Spagna - ossia vivere delle risorse del nemico, ma con il vantaggio di poter stabilire una linea di rifornimento alle spalle che conducesse sino alla ricca Valle dello Shenandoah. Inoltre se si riusciva a tenere occupato l’esercito federale sul suo stesso suolo fino agli inizi dell’autunno, v’era la concreta speranza che gli agricoltori della Virginia avessero la possibilità di raccogliere le messi estive in tutta tranquillità, dando così respiro ad una terra ormai esausta, dopo oltre due anni di occupazione militare da parte di eserciti che insieme totalizzavano più di 200.000 uomini. Secondariamente, egli non solo aveva ributtato indietro l’Armata del Potomac, ma aveva strappato l’iniziativa ai federali, i quali, ora, apparivano confusi e incerti; occorreva sfruttare il momento, prima che costoro si riorganizzassero per ritornare più forti che in precedenza; v’era il tempo di preparare un’offensiva, muovere e obbligare il nemico a braccarlo; Lee appariva deciso a dettare le mosse all’esercito federale e non più essere costretto a inseguirne i movimenti, con tutti i vantaggi che ne conseguivano in termini di come, dove e quando colpire l’avversario. Dopo Fredericksburg, tutto ciò non era stato possibile a causa della stagione invernale e dell’inclemenza del tempo: ma, ora, quei problemi non esistevano più. Sì, i federali erano superiori in numero: ma questo aveva mai costituito un problema per l’Armata della Virginia Settentrionale? Se egli era riuscito, pur privo di gran parte della sua armata, a infliggere una dura sconfitta ad Hooker, con la riunione dell’esercito al completo e i rinforzi ch’egli credeva si sarebbero potuti radunare e inviare a lui, come vedremo dopo, vi era molto più di una concreta speranza di poterlo sbaragliare ancora. Al resto avrebbe pensato l’applicazione dei principi strategico operazionali di cui Lee era maestro (i quali come visto, egli derivava in gran parte dalla lezione napoleonica) che consigliavano ad un esercito inferiore in numero, di sfruttare il movimento, dividendosi in colonne per confondere il nemico e costringerlo a dividersi, per poi piombargli addosso quando esso si trovasse separato; non solo: di muovere con estrema velocità secondo la massima di Napoleone in virtù della quale “la forza di un esercito, come la potenza nella meccanica, va stimata moltiplicando la massa per la rapidità; una marcia rapida, aumenta il morale di un esercito e accresce le possibilità di un successo”. Si trattava di una forma di blitzkrieg ante litteram: e se c’era una cosa che aveva dimostrato l’Armata della Virginia Settentrionale, era di sapersi muovere ad una velocità superiore a quella degli avversari, tanto che la fanteria del corpo di Thomas “Stonewall” Jackson era stata ribattezzata “cavalleria a piedi”; famosa al punto da guadagnarsi il titolo di “divisione leggera” per la sua mobilità, era l’unità del generale Ambrose Powell Hill. Del resto, secondo una precisa logica militare di ogni tempo, la massa dell’esercito che ne insegua un altro per raggiungerlo e dare battaglia, deve necessariamente dividersi per aumentare la propria celerità: e anche quando quell’inseguitore tenti di restare unito, giocoforza esso tenderà a dividersi a causa della diversa sequenza dei movimenti delle proprie unità e per l’impossibilità di percorrere lo stesso spazio nel medesimo tempo. Ciò tanto più nel caso di specie: l’Armata del Potomac era molto più “pesante” del suo avversario, avendo un traino vagoni molto articolato e numeroso. Esattamente ciò che accadrà il 1° luglio a Gettysburg, allorquando sul campo di battaglia della Pennsylvania, i federali si trovarono in minor numero e a mal partito. Non si sa se Lee ricordò a Davis e Seddon anche quanto avvenne nel corso dell’invasione del Maryland nel 1862, per dar ancor più forza ai propri argomenti. Di certo, dentro di sé richiamò quell’esempio: se allora, pur grandemente inferiore in forze e con una parte delle truppe contraria all’iniziativa (specie gli uomini provenienti dal North Carolina, a quanto pare), con un esercito mal equipaggiato, egli era riuscito, unico condottiero tra le fila confederate nel corso del conflitto, a catturare un’intera guarnigione nemica (Harper’s Ferry: oltre 11.000 uomini prigionieri e una quantità di materiale bellico altrimenti indispensabile per sopperire alle deficienze logistiche sudiste) e a tenere in scacco gli unionisti sino a quando il fortunoso ritrovamento dei suoi piani non rovinò, in gran parte, quell’impresa, quali risultati, se non ancor più vantaggiosi, si poteva ragionevolmente attendere, adesso che il suo esercito era all’apice della propria potenza e del proprio morale? Già, l’elemento del morale dell’armata: fattore che da sé solo moltiplicava per cento la forza e il valore di un esercito. Dopo Chancellorsville, indubbiamente, quello confederato si doveva trovare al suo zenith. Lee aveva osservato i suoi uomini in quell’occasione, il loro comportamento e coraggio, il loro spirito di sacrificio e la loro eccezionale abilità - non solo nel combattimento di fanteria, arma in cui da sempre i confederati eccellevano, ma anche nell’uso dell’artiglieria, che proprio in quell’occasione aveva superato quella unionista, tradizionalmente più numerosa e meglio equipaggiata - la loro assoluta devozione alla causa dell’irredentismo sudista. E ne aveva tratto una logica conclusione: quell’armata non era mai stata così forte e disciplinata come ora e se guidata in modo appropriato, sarebbe stata capace di muovere ovunque e compiere qualsiasi impresa (112). Una percezione largamente diffusa sia dentro che fuori l’esercito. “L’armata della Virginia Settentrionale non è mai stata in migliori condizioni. Gli uomini hanno una sconfinata confidenza in loro stessi e nei loro capi”, osservava un ufficiale di campo del 9° Virginia in quel periodo (113); un altro ancora, questa volta appartenente al 5° Texas, pochi giorni prima dei tragici fatti di Gettysburg si spingeva addirittura a scrivere che “la mia confidenza nel valore e nell’abilità del Generale Lee è così grande che io credo [che] egli possa compiere quasi ogni cosa che egli intraprenda” (114). Di contro, Lee ora osservava il nemico e ne deduceva come il morale dei federali dopo la sua vittoria di Chancellorsville dovesse essere assai basso, traendone un’altra, altrettanto sensata, conclusione: quello era il momento massimamente propizio, per muovere a Nord. Un’opinione del tutto corretta, a giudicare dalla stessa documentazione e memorialistica settentrionale. Secondo il generale unionista Oliver Otis Howard, comandante dell’XI° corpo dell’Armata del Potomac, “non vi fu periodo più cupo durante la nostra grande guerra del mese che seguì i disastri di Chancellorsville” (115). Può essere, come ha sottolineato qualcuno, che questo tipo di sentimenti, questa estrema confidenza nelle proprie capacità e l’idea che i federali potessero essere battuti senza troppe difficoltà, abbiano finito con il danneggiare, piuttosto che aiutare, l’esercito di Lee. Ma è sicuro che essi costituissero i necessari presupposti per condurre una campagna offensiva. Come che sia, non solo l’Armata del Potomac si trovava in difficoltà, ma il mito stesso dell’invincibilità del suo esercito, ragionava poi Lee, doveva essersi diffuso ormai ovunque, alimentando la percezione presso la popolazione settentrionale che la guerra sul fronte orientale, cioè sul principale teatro di guerra, fosse persa o comunque fosse destinata a divenire un inutile bagno di sangue, uno stallo con un terribile numero di perdite da ambo le parti e che pertanto non valesse la pena di continuare in quell’insensata carneficina. Ma v’è di più. Come è noto Lee era un attento e avido lettore di quotidiani e periodici settentrionali: grazie ad essi, non solo egli ne traeva utili informazioni di natura militare, ma indicazioni anche sul dibattito politico unionista e sui sentimenti dell’opinione pubblica nemico (116). Orbene, ai primi di maggio, grande eco sui giornali nordisti aveva ricevuto la vicenda dell’arresto da parte delle autorità federali del deputato democratico Vallandigham, le cui idee a favore della pace abbiamo già intravisto. Nel Sud la vicenda era stata salutata come un segnale preciso delle difficoltà in cui si dibatteva l’amministrazione Lincoln e dell’affermarsi di un movimento sempre più esteso a favore di una riconciliazione con la Confederazione; significativamente, il 10 giugno Lee, letto l'accaduto, scrisse a Davis incitando lui e il Sud “a fornire tutto il sostegno possibile (…) all’emergere del partito della pace nel Nord” (117); del resto le elezioni di medio-termine del novembre 1862 avevano visto crescere i consensi intorno all’ala più moderata del partito Democratico, quella, cioè, che sembrava più disposta a trovare una conciliazione con il Sud: in quale modo, restava da vedere, ma di sicuro una vittoria militare confederata nel Nord avrebbe fatto pendere la leadership politica democratica verso soluzioni di pace. Tutti segnali precisi di un dissenso nei confronti della politica dell’Unione, che andava vieppiù allargandosi. Semmai, sottolineava Lee, occorreva far comprendere a parte dell’opinione pubblica meridionale, la quale a lui chiedeva a gran voce di sconfiggere totalmente l’avversario, tanta era la confidenza che si nutriva nella sua armata, una pace onorevole con il Nord era il miglior risultato possibile da raggiungere: per inciso, un’insospettabile lucidità di giudizio e visione globale dei problemi in chi è stato accusato di possedere una prospettiva squisitamente militare. Dunque tutti questi erano i convincimenti di Lee: e sia detto con tutta franchezza, nessuno aveva basi fragili o illogiche. Ad ogni buon conto, tra il 16 e il 17 maggio il Gabinetto Davis si riunì e di nuovo furono esposte le ragioni per consigliavano di procedere con il piano proposto da Lee: tutti furono concordi, ad eccezione del ministro Reagan, il quale sostenne la proposta Seddon, sebbene costui ora si fosse fermamente convinto della bontà delle idee del generale virginiano. Il risultato della votazione fu schiacciante: 5 a 1 a favore della strategia di Lee. Una decina di giorni dopo, allorquando, giunsero nuove notizie, sempre peggiori dal Mississippi, Davis ritenne opportuna una seconda convocazione del suo governo. Ma il risultato, non mutò. Lee aveva ottenuto il via libera definitivo.
Per terminare la nostra analisi non resta che rispondere a due domande. La strategia proposta da Lee era quella che serviva realmente alla Confederazione, oppure finì con il danneggiarla? E ancora: Lee si proponeva di battere in un’unica battaglia campale i settentrionali in via definitiva per poi dettare i termini della pace al Nord, ovvero egli altro? Per rispondere compiutamente alla prima domanda, occorrerebbe, parallelamente, condurre una lunga indagine sulle ragioni della sconfitta della Confederazione, o, se si preferisce, come abbiamo ricordato nell’incipit di questo breve scritto, della vittoria dell’Unione, un elemento troppo spesso dimenticato e che il Generale Pickett rammentò a chi lo interrogava sulle motivazioni del fallimento di Gettysburg, sottolineando come gli yankees (e il loro valore) avessero qualcosa a che fare con quella sconfitta. Basti dire che per spiegare i motivi della disfatta del Sud, interpreti e storici hanno elaborato non meno di trenta tesi che prescindano dagli eventi bellici, per dar conto della complessità del tema e della impossibilità di affrontare tale problematica in questa sede. In ciascuna di queste ipotesi, in modo più o meno accentuato, a nostro giudizio, vi può essere del vero e sostenere che fu un insieme di concause a determinare quel risultato, ci pare corretto. Ma qui ci limiteremo solo ad esaminare la questione sotto un angolo prettamente strategico-militare, giacché come qualcuno ha osservato, spiegare altrimenti un fatto basilare come quello di una sconfitta maturata su di un campo di battaglia, ossia con una politica fiscale sbagliata da parte dei meridionali (una tassazione bassissima, solo dell’1% nel Sud, a dispetto del 23% applicato nel Nord, con conseguente indebitamento progressivo dello stato confederato e necessità di ricorrere a prestiti obbligazionari sempre più pesanti) costituisce una assurdità talmente ovvia da non dovervisi neppur soffermare. Nel 1913, un giovane ufficiale di Stato Maggiore dell’esercito americano, Robert A. Bruce, pubblicò un lungo articolo sulla strategia della guerra civile (118). Una delle sue tesi di fondo, poi ripresa più di recente con ulteriori argomenti da altri storici e interpreti del periodo al punto da farla divenire oggetto di vere e proprie monografie, se non proprio arringhe accusatorie, è che la strategia offensiva propugnata da Lee, alla fine, costò un numero di perdite per i confederati, assolutamente insostenibile, considerato il differente bacino umano tra le due sezioni: circa 6 milioni di uomini atti alle armi nel Nord, contro i poco più di 1 milione e 400 mila del Sud. Senza apportare alcun vantaggio alle fortune della Confederazione, insomma, la condotta audace e aggressiva di Lee, finì con il danneggiare, piuttosto che aiutare il Sud; ciò si sarebbe visto particolarmente nel 1864, quando ormai privatosi di una forza sufficiente per resistere all’offensiva di Grant, Lee fu costretto a ripiegare sulle trincee di Richmond, segnando il fato stesso della Confederazione. E’ bene specificare che qui non si parla di errori tattici o di responsabilità per un attacco fallito in una singola battaglia, ma del metodo strategico, appunto, complessivo di Lee, secondo quanto già premesso all’inizio di questa analisi. Ad ogni buon conto, l’esempio più stringente di questo approccio, è dato dalla campagna di Gettysburg. Cosa avrebbe dovuto fare Lee in quell’occasione, per tale scuola di pensiero, è presto detto: restare sulla difensiva, arroccato lungo la  linea del Rapahannock-Rapidan, limitandosi a respingere gli attacchi federali e più in generale evitando di correre rischi, di assumere l’offensiva e soprattutto di combattere se non costrettovi dalle circostanze. Il logorio prodotto dalle futili iniziative unioniste, avrebbe causato il progressivo sfaldamento del morale settentrionale e si poteva sperare, così, che si addivenisse ad una pace con il Nord. L’esempio da seguire, sarebbe stato, insomma, quello della guerra di Indipendenza americana e di George Washington, il quale, attraverso un’abile condotta difensiva, anche a costo di cedere terreno, riuscì con il tempo ad avere la meglio sugli inglesi; qualcuno, poi, si è persino spinto ad indicare la guerra del Vietnam, come modello per la Confederazione: scongiurando di combattere in campo aperto contro un nemico dotato di armamento superiore, ma ricorrendo a tattiche di guerriglia, l’esercito vietcong alla lunga riuscì ad avere la meglio sul colosso tecnologico americano. In estrema sintesi, secondo tali autori, il Sud avrebbe potuto guadagnare la propria indipendenza semplicemente “vincendo evitando di perdere”. Per vero, l’intera tesi appare, a dir poco, una strampalata curiosità storica, tanto essa appare infondata e slegata dagli eventi, oltreché dal contesto in cui essi maturarono. In primo luogo è facile osservare come tutti costoro - i quali paradossalmente, sono poi, proprio i più accaniti accusatori del presunto localismo di Lee e del suo preteso disinteresse per gli altri fronti che non fossero la Virginia e dintorni - abbiano finito per perdere di vista la globalità dei fronti e dell’intero teatro di operazioni della guerra civile. E’ infatti facile osservare come qualsiasi fosse stata la strategia perseguita da Lee - ossia offensiva ovvero passiva e meramente difensiva in Virginia, come da loro suggerito- essa avrebbe avuto una sua logica, alla precisa condizione che, contestualmente, ad ovest (con tale dizione geopolitica escludendosi il Trans Mississippi dal nostro assunto), si riuscisse a bloccare altrettanto efficacemente le iniziative unioniste; detto più brutalmente, che ad occidente esistesse anche un solo ufficiale al comando, non diremmo della statura di Lee, ma che sapesse quantomeno contrastare, con un minimo di risultati, le offensive settentrionali. Sennonché l’analisi degli eventi succedutisi nell’ovest, sotto tale profilo, è desolante. In quasi quattro anni di guerra, colà i confederati riuscirono a vincere una sola battaglia di un qualche rilievo: quella di Chickamauga, peraltro con terribili perdite, superiori a quelle del nemico. Nello stesso periodo possiamo annoverare come vittorie meridionali di un qualche significato strategico-tattico, tralasciando le molte altre minori o che non mutarono sostanzialmente gli equilibri: la campagna dello Shenandoah del 1862, prima e seconda Manassas, Fredericksburg, Gaine’s Mill e di fatto la campagna dei 7 giorni, Chancellorsville, Wilderness, Cold Harbor, Tupelo, Brice Cross Roads, Valverde, Palmetto Ranch, Sabine Pass, Olustee, Honey Hill, Secessionville, assalto a Fort Wagner, Fulton, Wilson Creek, Mansfield, Poison Spring, Lexington, Marks Mill. Cioè a dire, tutte affermazioni meridionali avvenute ai margini del Dipartimento dell’Ovest,nel Trans Mississippi, ovvero verificatesi sul fronte orientale. In termini comparativi, se è vero che Lee, ad esempio, subì circa 86.000 perdite nel periodo di comando fino a Gettysburg, infliggendone al nemico, però, oltre 107.000, nel medesimo lasso di tempo i confederati sul fronte Ovest persero non meno di 63.000 uomini (a fronte di soli 38.000 unionisti), oltre 100.000 da gennaio del 1862 (119). Con due differenze sostanziali: abbandonarono anche importanti centri urbani, impianti manifatturieri, interi stati o la loro quasi totalità (come il Kentucky, vitale per la Confederazione, sia strategicamente che logisticamente, o il Missouri) senza infliggere nessun apprezzabile danno al nemico; alla mente vengono le vicende di Fort Donelson, dell’Isola nr.10, di Port Hudson, di New Orleans, di Vicksburg stessa, con guarnigioni e armate intere che si arrendevano quasi senza colpo ferire. Con ogni probabilità perdendo la guerra. E si noti bene che gli ufficiali al comando nell’Ovest, neppure potevano accampare come scusante un’inferiorità numerica rispetto al nemico, come invece accadeva in Virginia. Anzi, nelle prime fasi della campagna di Fort Donelson, a Pea Ridge, Shiloh il primo giorno, a Baton Rouge, Iuka, Corinth, Praire Grove, in alcune fasi della campagna di Vicksburg, a Milliken’s Bend, Helena, Chickamauga, Peachtree Creek, Franklin, Spring Hill essi godettero di un vantaggio nei numeri o di una sostanziale parità. Persino in Georgia, nel 1864, la superiorità del nemico rispetto a quella esistente in Virginia nel medesimo periodo era meno accentuata. Eppure persero tutti quegli scontri o campagne, ad eccezione di Chickamauga. Certo, come è stato giustamente osservato, alcuni fattori congiuravano contro gli ufficiali che si trovavano ad operare ad ovest, come la disposizione geografica di fiumi e catene montuose, l'enorme spazio da difendere, un sistema di trasporti inappropriato, un’economia particolarmente arretrata e, più in generale, quel sistema di dipartimenti e distretti di cui abbiamo ampiamente parlato che non favoriva certo la concentrazione delle truppe all’interno di un territorio vastissimo né certezza circa le rispettive competenze, specie sul fiume Mississippi. Ma quando si passava ai fatti e si arrivava sul terreno di battaglia, per un motivo o per un altro, laggiù i confederati uscivano sempre sconfitti. Se seguissimo dunque quella linea di ragionamento da cui siamo partiti, dovremmo giungere ad una conclusione inequivocabile: anche Lee avesse battuto 10, 100, 1000 volte Grant in Virginia, sul Rapidan, senza permettergli di avanzare oltre e arrivare a Richmond, nell’aprile 1865 o, al più tardi, un mese dopo, la guerra sarebbe stata perduta ugualmente, dato che vi sarebbe comodamente giunto William T. Sherman, dalla porta posteriore. Qualcuno obietterà: Richmond non era la chiave di volta della guerra. Forse sì, forse no. Accedendo comunque a tale ultima prospettiva e ammettendo che comunque Lee, sul Rapidan, non si sarebbe arreso dopo la caduta della capitale, Sherman avrebbe proseguito nella sua marcia, circondando l'Armata della Virginia Settentrionale; a quel punto tutto sarebbe finito. Quanto all’ipotesi che occorresse guadagnare tempo, ancora una volta tale idea pare a dir poco un’amenità, se inserita nel contesto globale della guerra. Anche volendo considerare Gettysburg una grave sconfitta (il che è vero, ma solo in senso strategico) occorre rammentare che successivamente ad essa, sul fronte orientale, gli unionisti per un motivo o per un altro, attesero oltre dieci mesi prima di muovere all’offensiva, mentre nello stesso periodo, a costo di perdite umane ben più gravi, i confederati cedettero oltre al Mississippi pressoché intero, anche il Tennessee e varie altre zone più periferiche. Nel novembre 1864, ammettendo, per pura ipotesi, che Lincoln corresse davvero il rischio di non essere rieletto e concedendo, sempre in tesi, che il suo rivale, George McClellan, fosse favorevole ad una soluzione pacifica del conflitto, quale evento determinò la rielezione del Presidente uscente? La caduta di Atlanta, senza dubbio (120). Che poi sia stata responsabilità di Johnston o Hood, poco importa. Rimane lo straordinario strabismo di quella tesi. In questo contesto, il secondo paradosso, come ha suggerito Richard M. McMurry, è che personaggi mediocri o di seconda caratura come i generali Leonidas Polk - che qualcuno abbia potuto definirlo “un abile ufficiale”, ripugna alla logica più elementare –  nel corso della sua sciagurata occupazione di Columbus e campagna di difesa del Mississippi (conseguenze: fine della neutralità del Kentucky e sua perdita, apertura dei fiumi Cumberland e Tennessee alle navi unioniste, caduta di Fort Henry e Donelson, Isola nr.10, circa 30.000 uomini sottratti nella battaglia di Shiloh alle forze confederate) e William W. Loring, durante l’intero mese di maggio del 1863 a Vicksburg e dintorni, ma specie a Champion Hill (conseguenze: possibili vittorie gettate al vento, assedio di Vicksburg),  abbiano finito con il determinare con il loro comportamento, o meglio, con la loro totale inettitudine, il corso degli eventi molto più dei presunti errori di Lee a Gettysburg (121). Che costui abbia commesso in quell’occasione, alcuni sbagli, è pacifico, anche se le responsabilità più pesanti, gravano, a nostro giudizio, sui suoi ufficiali di corpo d’armata e, in misura minore, su altri ancora. Ma dette pecche rappresentano nulla, se rapportate alle devastanti conseguenze, come visto, di quegli errori che determinarono, qui sì, il fato della Confederazione o, quantomeno, lo accelerarono a dismisura. Sotto tale profilo, molto del tempo a disposizione per la Confederazione era già volato via: ed era successo ad occidente degli Allegheni, non ad Est. Allungare la guerra, a quel punto già aveva poco significato, a meno che nell’ovest non si riuscisse a riguadagnare il terreno perduto per tempo. O quantomeno non si fosse in grado, colà, di fermare gli unionisti in qualche punto, tenendoli a bada per anni. Il che non avvenne mai, passandosi di sconfitta in sconfitta. Questa situazione strategica complessiva dei fronti e la superiorità numerica dei federali, presentano una singolare analogia con la campagna di Normandia dell’estate del 1944. Anche allora, dopo il fallimento della difesa perimetrale (caduta del Vallo Atlantico) e la penetrazione alleata sul territorio, il comando supremo germanico, al pari dei confederati, si era trovato a fare i conti con un divario nelle forze che era destinato ad aumentare progressivamente e con una schiacciante superiorità logistica degli avversari. Ma le analogie non si fermano qui. Esattamente come nel corso della guerra civile americana, la situazione complessiva presentava due fronti, in un certo qual modo, disomogenei tra loro: quello tenuto dagli anglo-canadesi, al comando di Bernard Montgomery, e quello americano, diretto (nella sostanza) da Omar Bradley. Sul primo, i germanici avevano raggiunto una situazione di sostanziale stallo, impedendo ai britannici di raggiungere le pianure a nord di Caen, reale obiettivo strategico di Montgomery per poter lanciare la superiore forza corazzata di cui disponevano gli alleati, bloccata dalla natura del terreno intorno alla costa della Manica (il bocage normanno); insomma, una sanguinoso pareggio che ricorda molto da vicino quello stabilitosi sul fronte orientale, tra l’Armata della Virginia Settentrionale e l’Armata del Potomac. Sull’altro, gli americani mano a mano avanzavano, catturando intere guarnigioni (Cherbourg) un po’ come sul fronte dell’ovest, fecero i federali quasi cento anni prima. Anche nel caso della Normandia, la complessiva leadership militare, mostrava una certa similitudine con la guerra tra Nord e Sud nel nuovo Continente: mentre sul teatro di operazioni americano, i tedeschi apparivano incerti e confusi, su quello anglo-canadese, Erwin Rommel sembrava dominare gli avversari, bloccandone ogni iniziativa. Il fallimento dell’operazione Goodwood, progettata da Montgomery, si può in una certa qual maniera paragonare alla sconfitta di Fredericksburg. Sino a quando l’arrivo di George Patton sul fronte americano, (che può essere accostato ad un Grant, sotto molti profili) non diede il là ad un’offensiva inarrestabile. La soluzione che tentò di dare l’alto comando germanico prima dello sfondamento di Patton, era l’unica possibile: passare immediatamente e risolutamente all’offensiva laddove fosse possibile, vale a dire nel settore britannico, anche in considerazione della presenza di unità d’èlite e in generale di una maggiore coesione morale (esattamente come per l’armata di Lee), di un comando complessivo superiore all’avversario (Lee, Jackson e Longstreet) e di una disposizione geografica più favorevole (vicinanza alla costa, un po’ come il Nord era assai da presso alla Virginia); dato che il tempo lavorava contro l’adozione di una strategia difensiva - che pure sembrava dimostrarsi efficace su un fronte, mentre sull’altro produceva un costante arretramento, oltre che perdite sempre maggiori - il problema era stato ben individuato dallo stato maggiore tedesco: resistere su di un’ala, mentre l’altra cedeva, avrebbe condotto all’avvolgimento anche della prima. Che poi per vari motivi, tale soluzione non abbia funzionato (tra cui il ferimento di Rommel e un insieme di circostanze sfortunate), o meglio, non si sia riusciti concretamente a metterla in opera, è un altro discorso. Anzi, l’impossibilità di esecuzione di quell’audace piano, condurrà i tedeschi ad operare disperatamente contro l’ala avvolgente americana, cui seguirono la disfatta di Mortain e la sacca di Falaise, con il crollo dell’intero fronte. Analogamente, ragionare in termini di separazione dei due teatri di operazione e immaginare che i confederati, dovessero adottare una uguale strategia difensiva su ambo i fronti innanzi all’evidente e inesorabile arretramento progressivo di uno dei due, destinato solo ad aumentare per il maggior potenziale dell’organica settentrionale, sino a travolgere anche l’altro, aveva e ha poco senso logico. Era consapevole Lee di tutto ciò? Probabilmente sì, come dimostrato dalla scarsa fiducia nei comandanti dell’ovest insita nelle motivazioni con cui si oppose all’invio di Pickett a Vicksburg. Come accennato più sopra, Lee era un attento lettore della stampa e senza dubbio aveva seguito con sempre maggiore preoccupazione gli eventi ad occidente, traendone l’unica conclusione possibile in termini strategici: tentare di rovesciare il risultato della guerra ad est, mediante un’audace offensiva; se dunque quella era l’indiscutibile realtà delle cose, stare a guardare attendendo l’ennesima offensiva unionista non avrebbe condotto ad alcun risultato. Lo storico Steven Woodworth ha usato una metafora sportiva assai efficace per descrivere quella situazione, immaginando un quadrato pugilistico con i due contendenti, Nord e Sud, impegnati in un match, con Lee che cercava di vincere per ko ad Est, prima che la Confederazione perdesse ai punti ad Ovest. Era l’unica strategia che avesse una, seppur minima, chance di successo. Il terzo paradosso che scaturisce dalle tesi propugnate dai critici di Lee, è quello che potremmo definire di Fredericksburg. Come è noto, il 13 dicembre 1862, il generale unionista Burnside, dopo aver gettato un ponte di barche sul fiume Rapahannock, presso la cittadina virginiana di Fredericksburg, tentò invano per un’intera giornata di assaltare una posizione naturale fortissima su cui si era ben schierata l’armata di Lee, la quale non fece altro che respingere ogni attacco, uno dopo l’altro. Il risultato di quella tragica giornata fu un terribile scotto di vite umane per gli unionisti: circa 13.000 morti, feriti e prigionieri contro i poco più di 5.000 subiti dai confederati. Quell’esempio, si ragiona, costituiva la prova evidente che la difesa aveva la meglio sull’offensore: non c’era che da seguirlo. Inutile prendere rischi offensivi, meglio attendere sul Rapahannock il ripetersi degli eventi. Ora, si può davvero credere con serietà che ogni ufficiale settentrionale posto al comando dell’Armata del Potomac, fosse disposto a lanciarsi contro il muro di pietra e la sunken road di Marye’s Heights, senza provare, invece ad aggirare il nemico o comunque evitando di confrontarsi in campo aperto contro posizioni inattaccabili? Magari ricorrendo all’idea di sfruttare la superiorità navale unionista per sbarcare nelle vicinanze di Richmond? Idea che, per inciso, nonostante tutte le problematiche individuate da Lincoln (e i bastoni messi tra le ruote), aveva condotto McClellan molto vicino a vincere la guerra dopo solo un anno, prima che intervenisse, guarda caso, provvidenzialmente Lee, il quale scongiurò i disastri combinati da Johnston nella difesa della capitale. Se è vero che Lincoln, dopo quell’esperienza, aveva espresso la propria opposizione più ferma ad ogni progetto di operare sui fiume James e York, imponendo così, la propria (miope) visione ai suoi ufficiali - strategia che individuava nella distruzione totale dell’armata di Lee l’unico obiettivo strategico sul fronte orientale sicché non è sbagliato dire egli così facendo diverrà il più grande killer di americani della storia - è anche vero che sia Hooker (campagna di Chancellorsville) che successivamente Meade (campagna di Mine Run), non commisero quell’errore. Insomma la tesi secondo cui Lee avrebbe dovuto attendere le mosse del nemico, si basa su di un postulato a dir poco assurdo: ossia che il nemico stesso collaborasse a trasformare la sua difesa, in una serie interminabile di piccole o grandi Fredericksburg. Il paradosso è chiaro: per questa prospettiva, i confederati abbandonata ogni genere di iniziativa avrebbero potuto solo pregare e sperare che Lincoln mettesse al comando una manica di folli e incompetenti. Meglio ancora: aspiranti suicidi. Peraltro, come dimostrato dall’impressionante studio statistico degli effettivi delle armate confederate nel 1864 condotto da Steven Newton, all’apertura della grande offensiva di Grant di maggio di quell’anno, il numero degli uomini a disposizione di Davis, era pari, se non addirittura superiore, a quello sotto le armi nel maggio dell’anno precedente: sicché, parlare di esaurimento delle forze a causa della dissennata strategia offensiva propugnata da Lee, pare già errato solo per questo (122). Era mutata, però, la distribuzione: ora i confederati erano costretti ad una maggiore concentrazione-dispersione, nel tentativo di parare ogni puntata offensiva del grandioso piano di Grant, il quale aveva compreso, da grande stratega qual egli era, che per piegare il Sud definitivamente occorreva muovere all’offensiva in più punti in contemporanea, coordinando anche temporalmente tra loro l’avanzata delle sue armate, a riprova definitiva che attendere gli eventi per i confederati non aveva alcuna prospettiva vantaggiosa. Né, a nostro giudizio, avrebbe avuto molto più senso invertire i fattori, come pure Davis aveva accarezzato di fare dopo Gettysburg in un paio di occasioni: vale a dire spostare il generale Lee ad ovest, perché assumesse il comando laggiù. A parte le difficoltà di ambientamento che avrebbe incontrato Lee e i suoi problemi di salute, Davis si sarebbe trovato di fronte ad un grave dilemma: a chi affidare le sorti del teatro virginiano? Le opzioni sul tappeto sarebbero state due, nella sostanza: Braxton Bragg e Joe Johnston. Con un deciso margine di vantaggio a favore di quest’ultimo, dal momento che Johnston avrebbe goduto non solo di un forte appoggio politico, ma anche di quello di numerosi ufficiali dell’Armata della Virginia Settentrionale: Longstreet in testa, come abbiamo visto, ma anche altri di influenti personaggi come “Jeb” Stuart. Wade Hampton, Edward Porter Alexander. Ora, ricollegandoci al paradosso da cui siamo partiti, è’ curioso che lo stesso Johnston non appena appresa la notizia della vittoria di Fredericksburg abbia sottolineato, con la consueta punta di gelosia e risentimento, come Lee avesse tutte le fortune, perché a lui non sarebbe mai potuto accadere che il nemico lo attaccasse in una posizione del genere (123). Johnston senza rendersene conto aveva esattamente inquadrato il problema: o meglio, il suo problema. Nessuno, infatti, mai sarebbe stato così idiota da attaccarlo frontalmente, vista la possibilità che egli offriva ai suoi avversari di prevedere i suoi movimenti e di conseguenza di aggirarlo sistematicamente, costoro sapendo in anticipo che egli non era uso rischiare mosse audaci: ossia dividere la sua armata, per parare le mosse dell’avversario. Quanto poi ad intimidire l’avversario (un fattore che Lee, proprio assumendo l’offensiva, aveva saputo ben inculcare nel nemico) non se ne parlava proprio: muovere audacemente per Johnston era contrario ad ogni logica militare, a meno che non si verificassero condizioni talmente favorevoli da assicurarsi la vittoria in anticipo. Insomma, con ogni probabilità, persino un comandante cauto come Meade - per non parlare di Grant - avrebbe approfittato della situazione per arrivare alle porte di Richmond, con ogni conseguenza del caso. Un’alternativa avrebbe potuto essere rappresentata da Longstreet: ma anche qui c’era poco da stare allegri; sebbene fosse indubbiamente un ottimo comandante di corpo d’armata, specie se spronato e ben diretto, lo scontro di Williamsburg e le campagne di Suffolk e Knoxville, dimostravano le modeste qualità di comando indipendente. In definitiva, un po’ come la storia della coperta corta, qualsiasi fosse stata la scelta, avrebbe condotto la Confederazione alla sconfitta, in un tempo ancor più ristretto, questa volta sul teatro orientale, dato il minor spazio, senza alcuna garanzia che Lee ad occidente potesse risolvere la guerra. L’accenno a Johnston, peraltro, ci conduce direttamente ad un’altra problematica: ossia l’idea che la Confederazione per vincere la guerra, dovesse adottare una strategia “fabiana” (dal nome del condottiero romano Quinto Fabio Massimo, detto “il temporeggiatore” e dalla sua condotta adottata nel corso della seconda guerra punica) di arretramento e logoramento dell’avversario, cedendo spazio per guadagnare tempo e risolvendo di sfruttare l’allungamento in profondità delle forze unioniste per colpire le loro linee di rifornimento. Del resto, in apparenza, il territorio della Confederazione, come già detto più sopra, era vastissimo e grosso modo per misura corrispondeva a quello della Russia europea; di conseguenza, prendendo ad esempio la strategia della terra bruciata perseguita del generale russo Michail Illarionovic Kutuzov all’epoca dell’invasione napoleonica (1812) si sarebbe dovuto evitare di combattere, ma, piuttosto, sfruttare la manovra operazionale per retrocedere, fiaccando il nemico. Lungo questa linea di pensiero, la condotta del generale Johnston nel corso della campagna di Atlanta è stata portata a modello da Russel F. Weigley (e pochi altri, per vero) come esempio pratico di ciò che si sarebbe dovuto fare sin dall’inizio del conflitto (124). Preliminarmente, sarebbe facile osservare che tale idea non avrebbe avuto alcuna concreta speranza di successo sul teatro virginiano, dato l’esiguo spazio di manovra esistente, a meno di non sacrificare Richmond: una prospettiva del tutto irrealistica e che avrebbe condotto immediatamente nella tomba la Confederazione, vista l’importanza non solo psicologica, politica, economica e morale della capitale, ma anche il valore decisivo degli impianti manifatturieri per la logistica militare sudista. In secondo luogo, si potrebbe pure rilevare che alla luce delle più recenti ricerche e indagini su quella campagna (anzi, le uniche condotte in modo scientifico-storico, con appropriate monografie), nessuno più sembra dar molto credito al vecchio Joe e alla validità ed efficacia della sua manovra ritardatrice né allo stantio adagio secondo cui la sua rimozione alle porte di Atlanta, segnò il destino della città e con esso della Confederazione (125). Anche in questo caso, insomma, viene a galla un curioso paradosso: i più acerrimi critici del presunto anacronismo di Lee sembrano essi stessi prigionieri di un pensiero antiquato, fermo alla ricerca storiografica degli anni 60’, quando ancora cioè si dava una qualche considerazione alle tesi di Johnston. Qualcuno forse dovrebbe informare tutti costoro che la “magistrale” campagna di Johnston, mentre non arrecò alcun significativo danno al nemico, stava procurando un numero di perdite proporzionalmente assai maggiore al suo esercito. Né del resto, si potrebbe certo sostenere che egli aveva comunque mantenuto la forza combattiva dell’armata, se essa non veniva impiegata in battaglia con successo e neppure come massa intimidatrice, ben sapendo Sherman che Johnston non avrebbe mai attaccato le sue linee (126). Qual era lo scopo strategico di Johnston? Indubbiamente, quello di fermare Sherman, com’egli stesso indicò nelle sue memorie: o, quantomeno, di tentare di bloccarlo. Al contrario, non sapremo mai come avrebbero reagito gli unionisti ad un’eventuale sconfitta della stessa proporzione di quella subita a Wilderness da Grant: e non lo sapremo proprio perché Johnston, adottò una strategia esclusivamente di arretramento o di mera difesa passiva, rifiutandosi di attaccare o contrattaccare ogni qual volta se ne presentasse l’opportunità, lo scontro di Kennesaw Mountain essendo l’esempio più evidente (127). Possiamo anche ammirare sotto un profilo strettamente militare le sue brillanti manovre di sganciamento di fronte al nemico, ma rimarrebbe sempre il problema principale: in meno di due mesi egli aveva perduto il controllo di un’importante zona strategica ed economica e aveva demoralizzato i suoi uomini. Un punto molto importante su cui torneremo a breve. Ma prescindendo da queste pur assorbenti considerazioni, una strategia “fabiana” avrebbe davvero avuto qualche utilità? In realtà, tale tesi pare alquanto bislacca e si basa su di un completo travisamento della realtà sociale, economica, geografica e politica della Confederazione: se adottata sin da subito dai vertici militari confederati avrebbe condotto al disastro il Sud nel giro di pochi mesi. In primo luogo, essa sembra ignorare completamente la disposizione geografico - strategica di quell’ampio spazio di cui parla e l’ubicazione dei territori realmente vitali per la Confederazione: sistemazione che, in realtà, riduceva ampiamente la superficie che essa poteva cedere senza problemi. Il Texas, stato che poco dava all’economia sudista sia in termini di uomini che di risorse, e che rappresentava un teatro di guerra del tutto secondario in cui ambo le parti impegnarono poche migliaia di combattenti, da solo aveva un’estensione di 420.000 chilometri quadrati, ossia 1/3 dell’intero Sud (128). Se a ciò si aggiungono i territori altrettanto poco rilevanti di parte della Louisiana e del Mississippi situati ad ovest dell’omonimo fiume, la riduzione del complessivo territorio di significativa importanza della Confederazione giunge ad oltre la metà, come acutamente sottolineato anche da Archer Jones, secondo cui l’isolamento dei spazi dell’Ovest dal resto della Confederazione dopo la caduta di Vicksburg nel luglio 1863 ebbe “poca concreta importanza strategica dal momento che i Confederati avevano da tempo così pochi traffici attraverso [il Mississippi] che essi perdettero virtualmente nulla” (129). Se è vero che attraverso Matamoros nel Messico e il porto di Galveston nel Texas, sino al termine del conflitto continuarono ad arrivare armi e merci queste di fatto rimasero sempre nell’ambito del Trans Mississippi, un po’ per miopia e disinteresse dei vertici politici confederati, sia per precisa volontà delle autorità militari locali e in particolare di Kirby-Smith, al punto che qualcuno accennava a quel territorio come al “regno di Kirby-Smith”. Anche la Florida, ampie zone costiere del South Carolina e degli stati che si affacciavano sul Golfo del Messico, tutto il massiccio degli Appalaci risultavano privi di autentico valore. La sfera vitale della Confederazione, il suo cuore strategico si trovavano racchiusi in un quadrilatero irregolare di forma allungata rettangolare che partendo dalla costa orientale e la Virginia si estendeva da nord a sud sino ai confini con la Florida, per poi piegare ad angolo e proseguire verso ovest sino a New Orleans, mentre il vertice superiore, a nordovest, coincideva con i confini con il settentrione, i quali si spingevano dapprima come un nucleo nel territorio meridionale attraverso il Tennessee sino al Kentucky per riconnettersi a est, superato il massiccio appalaciano e attraverso la Valle dello Shenoandoah, alla Virginia; i lati minori erano costituiti dal fiume Mississippi a ovest e dalle coste atlantiche a est. All’interno di questo ideale rettangolo, lo spazio di manovra era in realtà poco vasto, proprio perché i vertici di questa figura erano assai più ampi dei lati minori, con corridoi di invasione più numerosi, mentre la distanza da percorrere in linea retta da nord verso sud per giungere all’altro capo era, in effetti, mediamente di soli 500 chilometri, se si esclude la penisola della Florida. Peraltro i punti nevralgici del paese ossia le città di Richmond all’est e Atlanta all’ovest erano posti, rispettivamente, a soli 70 km dalla linea ideale del fronte virginiano e a 100 km dal confine con il Tennessee; insomma, come è stato notato “per una nazione il perseguimento con successo di una strategia di difesa necessita di una vasta e ricca zona centrale nella quale poter arretrare. Sfortunatamente per il Sud, il suo cuore era posizionato sulla sua frontiera” (130). A ciò si aggiunga che il dominio unionista dei mari e dei corsi d’acqua che circondano o attraversano la Confederazione, riduceva ulteriormente lo spazio utile di manovra, moltiplicando, al contempo, i punti da cui scagliare, in posizione relativamente avanzata, eventuali offensive. I tre principali fiumi del Sud, ossia il Mississippi, il Cumberland e il Tennessee, tutti navigabili, costituivano ad ogni effetto tre autostrade e punti di appoggio (non presenti in Russia) che erano incuneati nel cuore del Sud: il loro controllo non solo costituiva un ideale trampolino di lancio per offensive che partissero da posizione centrale, ma garantiva anche la possibilità di rifornire le truppe senza dover percorrere lunghi percorsi sulle strade assai accidentate del meridione; all’epoca un bastimento a vapore di medie dimensioni era in grado di trasportare oltre 50.000 uomini equipaggiati in soli due giorni e poteva rifornire un’armata comodamente. Vi era poi un’altra sostanziale differenza, sul piano dei trasporti e logistico, con la campagna di Russia: l’esistenza della ferrovia. Per quanto, come visto esse fossero assai arretrate e di modeste dimensioni specie ad ovest, nondimeno l’opera ingegneristica degli unionisti e la loro capacità industriale avevano in parte risolto il problema di adattare quel primitivo tessuto viario alle esigenze della guerra moderna. Mentre non si poteva neppure far conto sul terribile clima invernale proprio dell’impero zarista, differentemente dalla Russia dell’800’, che offriva uno spazio davvero illimitato ove cui rifugiarsi oltre la città di Mosca, un arretramento di 500 km. sarebbe terminato nel mare o in un punto in cui le truppe avrebbero dovuto per forza bloccarsi e attaccare disperatamente il nemico, perdendo anche il vantaggio teorico di combattere tatticamente sulla difensiva. Sicché, in sostanza, retrocedere ad oltranza avrebbe significato solo accompagnare per mano gli unionisti dentro le arterie di questo cuore e offrire ad essi la possibilità di condurre le operazioni belliche sul loro terreno preferito: una guerra d’assedio. Sul piano sociale, una strategia basata sull’arretramento, avrebbe significato la perdita del controllo sulla popolazione negra, con un inevitabile tracollo dell’economia sudista, mentre gli schiavi liberati, sarebbero andati a infoltire le fila unioniste. Gli è che nel Mezzogiorno, gli schiavi assicuravano la produzione di beni agricoli e di manufatti industriali, “liberando” una gran quantità di bianchi per l’arruolamento: erano dunque un dispensabile supporto per l’esistenza stessa del primitivo tessuto socio-economico meridionale. Sul piano più strettamente militare, poi, si rivelarono un preziosissimo ausilio, ausilio, poiché furono impiegati in numero sempre maggiore per la costruzione di forti, bastioni e trincee laddove ve ne fosse necessità: specie sul fronte virginiano, grazie alla loro presenza, grandi opere di fortificazione furono realizzate attorno ai due principali centri politico-economici dello stato, vale a dire Richmond e Petersburg (131). Alla fuga dalle zone controllate dalla Confederazione, peraltro, faceva seguito il loro arruolamento nelle file unioniste; sotto questo profilo si può dire che, sebbene considerati dai vertici militari federali indisciplinati e assai poco adatti ai campi di battaglia, e quindi utilizzati per lo più per compiti logistici e di controllo del territorio (quantomeno sino alla fine del 1864), non di meno il contributo della popolazione schiava liberata si rivel fu assai importante per la causa unionista. Nel complesso un totale di 7.122 ufficiali e 178.895 soldati - di cui si calcola che circa l’80% provenisse dai territori della Confederazione - inquadrati in 166 reggimenti con la denominazione di United States Colored Troops militeranno sotto la bandiera a stelle e strisce (132). E proprio perché gli ex schiavi furono massimamente adibiti a compiti di sorveglianza delle retrovie o spediti nei servizi logistici, anche il teorico vantaggio di un allungamento delle linee di rifornimento unionista o la necessità da parte dell’invasore di adibire parte delle truppe al controllo delle zone occupate sottraendole alla prima linea, veniva meno. Sta di fatto che laddove il teatro di operazioni era stabilmente controllato sulla frontiera e sul territorio da un’armata confederata, come nel caso della Virginia, il numero di schiavi che raggiunsero la libertà fu notevolmente inferiore (133). Sopra ogni cosa, priva di schiavi, senza chi lavorasse i campi di cotone, sarebbe venuta meno l’essenza stessa della società sudista e le ragioni della nascita della Confederazione medesima, se è vero, come è vero, come esse costituissero peculiarmente il prodotto di uno spirito che sorgeva dall’incontro, compenetrazione e fusione tra il mondo aristocratico dei proprietari di schiavi e questi stessi, secondo quanto mirabilmente illustratoci da Raimondo Luraghi, in quella che è stata senza dubbio alcuno la parte più felice e riuscita dei suoi lavori (134). Questo senso di precarietà, di dissoluzione, quasi di urgente difesa e conservazione di una civiltà intera che scompariva laddove gli unionisti riuscivano ad arrivare e a mettere radici, si scorge bene nel pensiero di Lee (un punto che, ci pare, nessuno abbia sottolineato), allorquando ammoniva le autorità governative circa la necessità di far comprendere agli uomini e alle donne del Sud intero come, ogni loro sforzo, dovesse essere concentrato sulla guerra e in particolar modo sull’incremento degli effettivi dell’esercito, poiché, diversamente “visto il grande aumento delle forze del nemico, la brutale e selvaggia politica che esso ha proclamato [di voler applicare, qui l’accenno con ogni probabilità è al proclama di emancipazione di Lincoln ], che non ci lascia alternative tra il nostro successo o una degradazione peggiore della morte”, ne sarebbe conseguita “la distruzione del nostro sistema sociale” (135). E più tardi, a pochi mesi dalla fine della guerra, nel sollecitare l’adozione di una legge che permettesse l’arruolamento della popolazione schiava tra le fila confederate, egli metteva in guardia sui pericoli insiti nella penetrazione del nemico sul territorio spiegando che “il suo avanzare, gli permetterà di aggiungere [gli schiavi] alle sue fila, e al tempo stesso di distruggere [l’istituzione] della schiavitù, in maniera molto più pericolosa della stessa guerra [condotta] contro il nostro popolo” (136). Queste stesse ragioni spiegano, inter alia, per quale motivo un eventuale arretramento delle forze armate e ricorso alla guerriglia nelle zone occupate dal nemico, ovvero, tout court, l’adozione di una strategia basata unicamente sull’utilizzo di bande di guerriglieri contro gli invasori, senza alle spalle l’esistenza di un apparato politico e militare visibile e presente sul territorio, avrebbe fallito miseramente. Al di là di ogni altra problematica, tale opzione avrebbe alimentato solo le speranze di qualche disperato o le ambizioni ben più misere di qualche bandito, ma non avrebbe avuto alcuna concreta chance di successo: una volta crollato il sistema schiavistico, la popolazione civile non avrebbe avuto alcun interesse alla prosecuzione di una guerra strisciante contro l’invasore, sicché i guerriglieri si sarebbero con il tempo alienati la loro simpatia e il loro appoggio. Sul piano politico, poi, una politica fabiana di continue, incessanti ritirate avrebbe condotto alla disgregazione della Confederazione come unica entità nazionale nel giro di brevissimo tempo, se, come visto, essa doveva, anzitutto garantire a tutti i suoi componenti, una difesa del loro territorio per preservare la sua stessa esistenza. Un semplice esame della provenienza dei componenti dei principali organi politico-costituzionali della Confederazione ci spiega il perché; al Senato i rappresentanti degli stati di confine o dell’Upper South (Virginia, Kentucky, Tennessee, North Carolina, Missouri, Arkansas) totalizzavano 12 voti contro i 14 del Deep South (Mississippi, South Carolina Texas, Florida, Louisiana, Alabama, Georgia): una risicata maggioranza a favore di questi ultimi, dunque. Ma alla Camera, i voti dei primi ammontavano a ben 60, contro i restanti 46. In breve, la Confederazione, una volta stabilito di abbandonare a sé stessi i territori più a Nord, si sarebbe spaccata sul piano politico nel breve volgere di pochi mesi, se non addirittura, giorni (137). Ancora, una strategia basata solo sulla retrocessione e difesa delle armate, avrebbe demoralizzato irrimediabilmente le truppe: un esempio, datoci proprio dalla campagna della Georgia del 1864. Secondo quanto narrato da Johnston, egli avrebbe avuto l’assoluta confidenza e affezione dei suoi uomini e prima della sua rimozione dal comando, il loro morale sarebbe stato assai alto. Un’affermazione, sino a qualche decennio fa, di fatto mai disputata o esaminata dalla storiografia, la quale, citando pressoché esclusivamente qualche isolata autobiografie o memoria dei veterani di quella campagna, pubblicata dopo la fine della guerra, ne ha sempre sostenuto la sostanziale correttezza; sennonché i più recenti contributi in materia, attraverso l’esame delle fonti coeve (e quindi non influenzata dalla campagna d’opinione scatenatasi contro Hood in seguito ai suoi fallimenti), mutano il quadro significativamente. In breve, mentre il morale degli uomini appariva senza dubbio molto alto all’inizio della campagna, il continuo arretramento e la scelta strategica di Johnston di cedere terreno senza combattere, divennero, mano a mano che l’armata retrocedeva, sempre più oggetto di dubbi, lamentele e contrasti tra le truppa (138). Tutto ciò accompagnato, significativamente, da un numero di diserzioni sempre maggiore, con proporzioni epidemiche, allorquando Johnston si ritirò sulla linea del fiume Chattahochee, a pochi chilometri da Atlanta: probabilmente non meno di 3.000 uomini, nel breve volgere di pochi giorni (139). Ciò può essere spiegato (senza mutare la questione di fondo) anche in base alla scelta del tutto errata dell’alto comando confederato “di impiegare le truppe per la difesa delle loro stesse case, giacché quella politica determinava una costante tentazione per gli uomini di assentarsi dal servizio militare” (140). Un fenomeno, più recentemente, sottolineato anche da uno studio specialistico interamente dedicato alla diserzione confederata, nel quale si rimarca però come, indipendentemente da questo problema, una strategia fabiana di continua difesa e ritirata determinasse un netto abbassamento del morale della truppa e un forte aumento nel numero dei disertori (141). Di conseguenza, anche sotto il profilo del fenomeno dell’assenteismo e/o diserzione degli uomini, tale strategia si sarebbe rivelata assai dannosa, ampliando a dismisura gli effetti di una problematica già di per sé stessa grave. Tutto ciò, a sua volta, avrebbe negativamente influenzato l’opinione pubblica e il popolo confederato. Come ampiamente evidenziato dallo storico Gary W. Gallagher, le aspettative della gente comune sudista, al pari di quelle dei commentatori e opinionisti dei periodici o dei politici, erano rivolte ad una strategia offensiva: quella il pubblico domandava, non continue ritirate che avevano solo come risultato il crollo della volontà di lottare nel Sud (142). Circa, infine, l’esempio di George Washington e della sua strategia, poche parole. Si tratta in effetti di comparare due periodi storici e due situazioni del tutto differenti. A parte i progressi notevolissimi nella logistica e nel sostentamento delle truppe al fronte che dividono un’epoca in cui vigeva la c.d. regola dei “cinque giorni” (cioè le difficoltà di muovere le truppe a distanza di oltre cinque giorni dalle proprie basi operative) propria dell’età settecentesca, da quella che sotto alcuni profili può essere considerata la prima guerra moderna, come ha osservato oltre un secolo fa Rossiter Johnston, tra la guerra di Indipendenza americana e quella civile corre la stessa differenza che c’è “tra l’Oceano Atlantico e la linea Mason e Dixon”, alludendo così al fatto che Inghilterra e continente nord-americano erano divisi da uno spazio enorme, rendendo difficile la gestione e il controllo sotto ogni profilo di un esercito, quello inglese, che si trovava a dover combattere a migliaia di chilometri dalla madrepatria (143). Inoltre, tacendo di ogni altro aspetto, si può osservare come le forze coloniali americane godessero dell’appoggio di una potente nazione straniera (la Francia) e come, la leadership politica inglese di fatto si disinteressò completamente della questione, delegandone completamente la gestione alle forze militari: ciò che, inellutabilmente, segnò l’esito del conflitto. Ciò posto, si può ora dare un’unica risposta – affermativa – all’interrogativo da cui siamo mossi: sì, la strategia di Lee era la sola, sul piano concreto, che potesse dare qualche risultato e si sposava perfettamente con l’obiettivo del conflitto per la Confederazione: cioè, guadagnare l’indipendenza, non guadagnare tempo. Il Sud stava perdendo la guerra ad ovest e come unica speranza non restava che l’adozione di una politica militare aggressiva ad est. Una saggia e naturale decisione di natura politica e di strategia nazionale avrebbe dovuto assecondare e sostenere quel piano. Ma qui emerse il terzo (e forse maggiore) dei problemi che Lee dovette affrontare per vincere la sua battaglia e con essa quella della Confederazione. Non solo il nemico e l’incapacità degli ufficiali ad Ovest: anche il Presidente Jefferson Davis, con le sua visione strategica. Adesso che s muoveva all’offensiva e che il suo piano di massima era stato approvato, Lee, per prima cosa chiese che la sua armata fosse rinforzata. Le tre brigate della divisione Pickett (quelle dei generali Kemper, Garnett e Armistead) che si trovavano a Richmond, una volta deciso che non sarebbero partite alla volta di Vicksburg, furono immediatamente aggregate all’armata. Ma non bastava: occorreva molto di più. Lee domandò che ritornassero dal North Carolina anche l’eccellente brigata di Micah Jenkins (forte di 2.644 uomini ) e quella virginiana di Montgomery Corse (circa 1.100 soldati) già parte della divisione Pickett, oltre alla ottima divisione del generale Robert Ransom composta dalla brigata Ransom stessa (3.067 uomini), e da quelle dei generali John R. Cooke (2.332 uomini) e Nathan “Shanks” Evans (circa 2.000). Si trattava di unità composte da buoni soldati, condotte da eccellenti ufficiali: in tutto, oltre 11.000 solidi veterani. Dopo infinite discussioni, lamentele, recriminazioni e recite (in)degne di un attore da parte del responsabile delle difese del North Carolina, l’acido generale Daniel Harvey Hill (il quale, sia detto per inciso, detestava Lee, cordialmente contraccambiato), Davis negò il proprio assenso per il ritorno delle unità, acconsentendo a che fossero spedite, in loro sostituzione, le sole brigate Davis (circa 2400 uomini) e Pettigrew (2.700 ca.) (144). Insomma, oltre 6.000 uomini in meno, con due brigate del tutto inesperte al posto di unità testate e di sicuro affidamento. In Virginia stessa o nelle sue immediate vicinanze, si trovavano oltre 30.000 uomini sparpagliati qua e là, in attesa di immaginarie offensive; un fenomeno presente nell’intera Confederazione nel maggio 1863. In effetti uno studioso che abbia cura di esaminare l’insieme dei fronti e la concentrazione delle forze confederate nei vari teatri di operazione, rimarrebbe stupito dall’apprendere il numero di uomini, isolato in zone del tutto irrilevanti. Alla mente vengono gli oltre 15.000 uomini nell’Arkansas, i 6.000 nel Nord-ovest Virginia, i 16.000 nel South Carolina e i 9.000 nella Louisiana. Tutte truppe da cui sarebbe stato possibile trarre, attraverso un’abile e concertata politica dei vasi comunicanti, almeno altri 15.000 soldati da affidare al più abile condottiero della Confederazione per garantirgli una parità numerica con il nemico in quella che poteva essere un’occasione irripetibile: “mai più il Generale Lee avrebbe avuto un’opportunità così favorevole” scriverà a tal proposito Edwin B. Coddington, una delle massime autorità su Gettysburg (145). I principi della dispersione, occupazione e controllo del territorio, ancora una volta prevalevano. Gli è che, come ha acutamente notato Steven Woodworth, “Davis muoveva dall’assunto che per vincere la guerra il Sud aveva bisogno solo di evitare di perdere. Le linee interiori e i vantaggi insiti nella difesa avrebbero consentito alla più debole Confederazione di porre nel nulla gli attacchi unionisti fino a quando il Nord si fosse stancato del conflitto. Egli quindi favoriva una grande strategia difensiva che tenesse quei punti chiave che consentissero al Sud di sostenere una guerra di lunga durata. Un’azione offensiva, nella misura in cui potesse abbassare il morale nemico e sollevare quello dei sudisti, era appetibile, ma entro i limiti di un ben calcolato rischio. Dal momento che la vittoria avrebbe potuto essere raggiunta - certamente – senza tali azioni, Davis era di norma disposto a rischiare su di esse solo nella misura in cui disponesse di risorse che egli credeva che il Sud potessi permettersi di perdere, senza compromettere le sue possibilità [di vincere] sino ad un esaurimento [della volontà] nordista. Come Davis, Lee era conscio che la Confederazione si trovava in grave svantaggio in termini di uomini, risorse finanziare e materiali. La sua soluzione, tuttavia, era proprio l'opposto di quella di Davis. Dal momento che il Sud era più debole, doveva colpire in fretta e con forza, guadagnando vittorie che potessero, come minimo, demoralizzare il Nord e, forse, anche temporaneamente paralizzare la sua forza militare. Se la guerra si fosse trascinata per anni, se il potenziale militare e industriale del Nord avesse avuto il tempo per una completa mobilitazione, il più debole Sud sarebbe stato condannato. In una lunga, faticosa guerra di logoramento, l’aritmetica era tutto contro la più povera e meno popolata Confederazione. Di conseguenza, Lee era disposto a prendere azzardi terribili, non perché il Sud potesse permettersi di perderli, ma perché non poteva permettersi di non vincerli, già solo per il fatto di astenersi dall’assumerli" (146). Quella politica del compromesso propria del pensiero strategico di Davis, cui facevamo cenno più sopra riemergeva scontrandosi con le determinazioni di Lee, il quale domandava che parte della difesa territoriale fosse momentaneamente trascurata, lasciandovi un semplice velo di truppe. Del resto, ci si può domandare quale senso abbia avuto inviare circa 8.000 uomini a Johnston, sottraendoli così alle difese costiere del South Carolina, allorquando il fato di Vicksburg sembrava già segnato, mentre sulla costa del North Carolina, D.H.Hill fu lasciato al comando di oltre 22.000 uomini per fronteggiare una forza unionista assai inferiore: non più di 16.000 uomini. Non potremo mai stabilire se le truppe sottratte a Lee avrebbero potuto mutare l’esito della campagna di Gettysburg; ma è certo che sotto un profilo strategico-militare, si sia trattato di un grave errore. Quanto poi alla seconda questione, crediamo di avervi già risposto in gran parte, lasciando la parola alla documentazione stessa. Del resto, è Lee medesimo a indicarci quale fossero le sue intenzioni. In una conversazione con William Allan (ex ufficiale di stato maggiore del II° corpo d’armata dell’Armata della Virginia Settentrionale) avvenuta pochi anni dopo la guerra, Lee affermò che “il Sud era troppo debole per condurre una guerra di invasione, e i suoi movimenti offensivi contro il nord non sono mai stati intesi se non come parti di un sistema difensivo (…) Stare fermi a Fredericksburg avrebbe dato loro [ai federali] il tempo di raccogliere le forze e di avviare una nuova campagna basata sul vecchio piano. Andando in Pennsylvania, egli intendeva distogliere la loro attenzione, costringendoli a pensare a Washington invece che a Richmond, e [al tempo stesso] ottenere ampi rifornimenti per il suo esercito. Egli non voleva combattere se fosse stato possibile, a meno che non si fosse presentata una buona occasione per colpirli separatamente. [Lee] riteneva, tuttavia, con ogni probabilità che sarebbe stato necessario dare battaglia prima del suo ritorno [in Virginia] in autunno, così come sarebbe stato difficile ritirarsi senza essa. Egli non aveva alcun progetto di occupare permanentemente la Pennsylvania. [Lee] era preoccupato circa i rifornimenti [per la sua armata], essendo così debole che a tal scopo aveva dovuto risparmiare la propria forza. Si aspettava quindi di muovere, manovrare e mettere nel panico il nemico, minacciando le città, impartendo ogni colpo che fosse in grado di portare senza rischiare una battaglia generale e quindi all’approssimarsi dell’autunno ritornare alla base più vicina” (147). Parole che trovano ampia conferma nelle memorie dell’ex tenente-colonnello confederato Charles Marschall, Aide-de-Camp di Lee nello Stato Maggiore del generale virginiano, il quale ricorda quale fosse il pensiero di Lee al riguardo con le seguenti parole “come nella campagna del 1862, allo stesso modo nella campagna del 1863 il desiderio di tenere impegnato il nemico a una certa distanza da Richmond e l’impossibilità di mantenere la sua armata abbastanza a lungo intorno a Washington per senza muovere a nord del Potomac, condussero all’invasione del Maryland e della Pennsylvania (…) Certo, nel mentre era impegnato a ottenere questi risultati, il Generale Lee era conscio dei risultati che avrebbero potuto seguire un deciso successo sul campo (…) Una vittoria sull’Armata Federale in Virginia avrebbe condotto ad un rafforzamento del partito della pace nel Nord, ma solo nella misura in cui avrebbe portato a credere la popolazione settentrionale che essa non avrebbe potuto ottenere un successo (…) I “copperheads” divenivano più deboli ogni volta che le armate Federali avevano vincenti, e ogni argomento a favore della pace nel Nord sarebbe stato molto più convincente se la vittoria avesse messo Washington, Baltimore, o Philadelphia nel nostro immediato raggio d’azione piuttosto che se ottenuta in Virginia” (148). Gli obiettivi di Lee erano dunque chiari: foraggiare l’armata nel ricco Nord, dividere il nemico attraverso la manovra e batterlo separatamente ove l’occasione si fosse presentata, costringerlo a ritirarsi e minacciare la capitale unionista o i grandi centri industriali fino ad ottenere che nella popolazione settentrionale si facesse largo e prevalesse il partito della pace. Sebbene Raimondo Luraghi abbia, anche recentemente, tentato di rilanciare la tesi di un Lee tutto proteso alla ricerca di una battaglia di annientamento del nemico sul campo, in pieno stile napoleonico e decisiva per le sorti della guerra, l’insieme delle fonti, in effetti, suggerisce, come visto, una soluzione diversa da quella prospettata dall’illustre accademico italiano (149). Del resto la sua tesi, che egli deriva direttamente da quella proposta Russell F. Weigley nel lontano 1972, è sempre apparsa del tutto minoritaria (se non addirittura isolata) tra gli studiosi della campagna; né può sfuggire come lo stesso Weigley, più recentemente, pare aver abbandonato quest’ipotesi di lavoro, per approdare a conclusioni diverse e in parte condivisibili: Lee non aveva come scopo primario la distruzione dell’armata nemica, ma la sua condotta operazionale era così dominata dai principi napoleonici che, in una qualche misura, assumendo l’offensiva, uno scontro con il nemico sarebbe stato inevitabile. Di sicuro, Lee era troppo intelligente per non sapere che prima o poi avrebbe incontrato il nemico sul campo: ma dare battaglia (to give) e offrire battaglia (to offer), nel lessico di Lee avevano un preciso e diverso significato. Nel primo caso, la scelta era di attaccare immediatamente, con il fine di distruggere fisicamente il nemico; nel secondo, attendere le condizioni favorevoli e in modo che un’eventuale vittoria si ripercuotesse non tanto sul nemico, ma sulla popolazione civile. Sotto un profilo strategico, dunque, prendendo come punto di riferimento l’opera del teorico prussiano Hans Delbruck (probabilmente il maggior studioso dell’arte militare e della sua storia) possiamo concludere che quella di Lee non era una “strategia di annientamento”, ma “di attrito” (150). Una strategia del primo tipo, persegue un obiettivo preciso: la distruzione completa per mezzo di una o più battaglie dell’esercito nemico e la conquista del suo territorio. Nel secondo caso lo scontro con l’avversario sul campo può essere o non essere perseguito, non essendo il fine essenziale: ciò che si vuole ottenere è che il nemico si determini ad accettare le condizioni dettate. Sotto molti profili, la strategia di Lee è comparabile a quella seguita da Napoleone dopo il 1809, se non già dopo la terribile carneficina di Eylau, due anni prima. Passati gli anni delle vittorie travolgenti di Ulm, Austerlitz, Jena e Auerstadt (un raro caso di strategia di annientamento vincente), visto il conto in perdite seguito alla battaglia di Wagram (1809), Napoleone si rese conto di due elementi fondamentali: da una parte intuì che il nemico aveva capito (e imitato) la sua strategia operazionale e tattica, sicché i suoi successi non sarebbero continuati a lungo, ovvero solo a costo di inauditi sacrifici in termini di uomini e mezzi. Dall’altra, che il numero degli avversari si accresceva e non era possibile trovare altra soluzione se non di natura politica. Il tentativo di invasione della Russia, per quanto fallito miseramente, e la sua ricerca di una larga forza di coalizione tra gli stati satellite o alleati con la Francia, rappresentava la sua risposta: e non era di natura militare, anche se si tradusse in un’impresa bellica, giacché il suo scopo non era quello di occupare la Russia, ma di costringere lo Zar (il più fedele alleato del suo nemico principale, ossia l’Inghilterra) ad addivenire ad una pace ragionevole. Parimenti, Lee non si proponeva alcuna occupazione del territorio settentrionale, né di affrontare una battaglia sul campo che annientasse il nemico definitivamente. Ciò che occorreva era una terza vittoria consecutiva che affossasse il morale dell’esercito unionista e della popolazione civile: e quello era il momento e il luogo per trasformare una semplice battaglia militare in una battaglia politica e di volontà. Vi è infatti una differenza fondamentale tra le condizioni in cui maturò la strategia tardo-napoleonica e quella perseguita da Lee: ossia l’esistenza, come abbiamo sottolineato più volte, di una democrazia radicata nel Nuovo Continente, di un popolo che eleggeva i propri rappresentanti e che pertanto decideva, in ultima istanza, ciò che occorresse fare o non fare; Lee aveva compreso perfettamente che solo una strategia di attrito che avesse come principale punto di riferimento e attacco l’opinione pubblica settentrionale costituiva la strada maestra per guadagnare l’indipendenza alla Confederazione. Su quel campo solo poteva prevalere il Sud, non sul mero terreno di battaglia che costituiva il mezzo con cui arrivare al cuore, alla mente e alla volontà della popolazione unionista. Il 3 luglio 1863, dopo due giorni di battaglia furiosi, il cui esito fu a lungo favorevole ai confederati, quell’idea si infranse: per quanto le perdite subite fossero pari, se non addirittura inferiori a quelle inflitte al nemico, l’Armata della Virginia Settentrionale aveva perso a Gettysburg gran parte, se non tutta, la propria capacità offensiva e, soprattutto, di intimidazione. Poteva andare diversamente? Certo, se nei giorni immediatamente precedenti alla battaglia di Gettysburg, si fosse presentato a Lee un gruppo di uomini provenienti dal futuro, vestiti in modo curioso e lo avessero convinto a provare l’efficacia delle armi automatiche AK-47 che recavano con sé a migliaia, come immaginato dal romanziere Harry Turtledove, senza ombra di dubbio, sì (151). Senza ricorrere all’immaginazione, forse la Confederazione e il Presidente Davis avrebbero potuto semplicemente pensare che quello era il momento propizio per concentrare ogni forza e risorsa e affidarla ad un impareggiabile condottiero, qual era Lee. Semplicemente, questo.

Note alla parte 5
(106) Cfr. J.B. Jones, A Rebel War Clerk’s Diary at the Confederate States Capital, (a cura di) H. Swiggett, 2 voll., New York: Old Hickory Bookshop, 1935, vol. 1, pp. 325-26; J. H. Reagan, Memoirs: With Special Reference to Secession and the Civil War, (a cura di) Walter F. McCaleb, New York: Neale, 1906, pp. 120-21, 151-52.
(107) OR vol 25, pt 2, p. 627.
(108) R. Goff, Confederate Supply, Durham,NC: Duke University Press, 1969, p.76.
(109) OR vol 25, pt.2, pp. 686-87, 724-725.
(110) R.E.Lee a J. B. Hood, 21 maggio 1863, in C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee, p. 490.
(111) R.E. Lee a J. Seddon, 10 gennaio 1863, ibidem, pp. 388-90.
(112) Ibi., p. 490.
(113) J.F. Crocker, “Gettysburg-Pickett’s Charge” in William Jones et alii (a cura di), Southern Historical Society of Papers, XXXIII, p.120.
(114) O.O.Howard “Personal Reminiscences of the War of the Rebellion” pubblicato sul periodico National Tribune, 12 giugno 1884.
(115) Lettera del 23 giugno 1863 del tenente-colonnello W.T.Williams, presso l’Harold B. Simpson History Complex a Hillsboro, Texas.
(116) Cfr. D.S. Freeman, R.E.Lee: A Biography, cit., I, p. 434; si veda ad es. OR vol 25 pt. 2 pp. 725-26, 791.
(117) OR vol.27, pt. 3, p.881.
(118) Cfr G.A. Bruce, “The Strategy of the Civil War” in Theodore F. Dwight (a cura di), Papers of the Military Historical Society of Massaschussets cit.spec. pp.439-440; J.F.C. Fuller, Grant and Lee: A Study in Personality and Generalship, cit. passim.; A.T. Nolan, Lee Considered: General Robert E. Lee and Civil War History cit. pp. 71ss., 101.; J. D. McKenzie, Uncertain Glory: Lee’s Generalship Re-Examined, cit. p.28.
(119) Cfr. Appendice 2.
(120) Cfr. A. Castel, “The Atlanta Campaign and Presidential Election of 1864: How the South Almost Won by Not Losing”, in Winning and Losing the Civil War, Columbia, SC: University of South Carolina Press, 1996, pp. 15-35; si veda però in senso contrario, a nostro personale avviso con ragione: W.H. Freehling “The Divided South, the Causes of Confederate Defeat and the Reintegration of Narrative Histories”, in The Reintegration of American History: Slavery and the Civil War, New York: Oxford University Press, 1994, pp. 220-253; W.C. Davis, “The Turning Point That Wasn’t: The Confederates and the Election of 1864” in The Cause Lost: Myths and Realities of the Confederacy, Lawrence: University Press of Kansas, 1996, pp.127-148; L.J. Daniel, “The South Almost Won by Not Losing: A Rebuttal” in North & South Magazine, nr.3, 1998, pp. 44-51.
(121) Cfr. R.M.McMurry, The Fourth Battle of Winchester: Toward a New Civil War Paradigma, Kent,OH: The Kent State University Press, 2002, cap. 6.
(122) S.H.Newton, Lost for the Cause: The Confederate Army in 1864, Mason City, IA: Savas Publishing Company, 2000.
(123) J.E. Johnston a L.T. Wigfall, 15 dicembre 1862, in D.G. Wright (a cura di), A Southern Girl in 61’- The War Time Memories of a Confederate Senator’s Daughter cit., p. 106.
(124) Cfr. R.T.Wegley, A Great Civil War: A Political and Military History, Bloomington: Indiana University Press, 2000, 1861-65, pp.358-361; si noti però come a p.256, l’Autore ritenga valida l’idea di Lee di invadere il nord nel giugno 1863.
(125) Sulla campagna di Atlanta e la totale inadeguatezza di Johnston, assai persuasivamente cfr. A. Castel, Decision in the West: The Atlanta Campaign, Lawrence: University Press of Kansas, 1992; R. McMurry, Atlanta 1864: Last Chance for Confederacy, Lincoln and London: University of Nebraska Press, 2000; S. Davis, Atlanta Will Fall: Sherman, Joe Johnston and the Yankee Heavy Battalions, New York: Rowman & Littlefield, 2001.
(126) Si vedano le interessanti osservazioni di Sherman a tal proposito in OR vol 39 pt. 3 p. 135.
(127) Cfr. recentemente E.J. Hess, Kennesaw Mountain: Sherman, Johnston and the Atlanta Campaign, Chapel Hill, North Carolina University Press, 2013.
(128) La miglior discussione di tale problematica è in R.G. Tanner, Retreat to Victory? Confederate Strategy Reconsidered, Wilmington, DE: Scholarly Resources Books, 2001, pp. 23-46.
(129) A. Jones, Civil War Command and Strategy: the Process of Victory and Defeat cit. p.162.
(130) J. L. Harsh, Confederate Tide Rising. Robert E Lee and the Making of Southern Strategy, 1861-1862 cit., p. 16.
(131) In tema si veda J.H. Brewer, The Confederate Negro: Virginia’s Craftsmen and Military Laborers, 1861-65, Durham, NC: Duke University Press, 1969.
(132) Per un’ottima sintesi si veda J.T.Glatthaar, “Black Glory: The African-American Role in Union Victory” in G.S. Boritt (a cura di), Why the Confederacy Lost, New York: Oxford University Press, 1992, pp. 133-162; più estesamente, D.T. Cornish, The Sable Arm: Negro Troops in the Union Army, 1861-1865, New York: W.W. Norton, 1966; J.M. McPherson, The Negro’s Civil War: How American Blacks Felt and Acted during the War for the Union, New York: Ballantine Books, repr. 1991; J.T.Glatthaar, Forged in Battle: The Civil War Alliance of Black Soldiers and White Officers, New York: The Free Press, 1990.
(133) J.H. Brewer, The Confederate Negro: Virginia’s Craftsmen and Military Laborers, 1861-65, cit., p .15.
(134) Cfr. R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, cit., spec. pp. 20-104.
(135) R. E. Lee a J. Seddon, 10 gennaio 1863 in C. Dowdey & L. H. Manarin (a cura di), The Wartime Papers of Robert E. Lee, cit., p. 389.
(136) R. E. Lee a A. Hunter, 11 gennaio 1865 riprodotta per intero in A. T. Nolan, Lee Considered ,cit., pp. 175-77.
(137) R.G. Tanner, Retreat to Victory? Confederate Strategy Reconsidered, cit., p. 148.
(138) cfr. L.J. Daniel, Soldiering in the Army of Tennessee, Chapel Hill: University of North Carolina Press, pp. 141-42.
(139) A. Castel, Decision in the West: The Atlanta Campaign of 1864, cit. p.350.
(140) E.Lonn, Desertion During the Civil War, Lincoln: University of Nebraska Press, 1998 (repr. ed. 1924), p.124.
(141) M.A. Weitz, More Damning than Slaughter: Desertion in the Confederate Army, Lincoln: University of Nebraska Press, 2005, pp. 171-73.
(142) G.W. Gallagher, The Confederate War, cit. pp. 124-140.
(143) R. Johnston, “Turning-Points in the Civil War” in American Historical Association Annual Report for the Year 1894, Washington: GPO, 1895, p.93.
(144) Per la vicenda che qui non possiamo esaminare nel dettaglio, al pari del piano di Lee per creare una diversione con un’armata affidata al generale Beauregard, cfr. OR vol. 18, pp. 1062-63, 1066-67, 1071-73, 1076-80, 1082-84, 1092; vol. 25, pt. 2, pp. 831-33, 868-69, 908, 946-47.
(145) E. B. Coddington, The Gettysburg Campaign: A Study in Command, New York 1968, p.259.
(146) S.E. Woodworth, Lee & Davis at War, cit. p. 328.
(147) Trascrizione della conversazione tra W.Allan e R.E.Lee del 18 febbraio 1870, in G.W.Gallagher (a cura di), Lee the Soldier, Lincoln: University of Nebraska Press, 1996, p. 17.
(148) F. Maurice (a cura di), An Aide-de-Camp of Lee, cit., pp. 181-82, 186.
(149) Cfr. R. Luraghi, La Guerra Civile Americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale cit. pp. 110 ss.
(150) Per questi concetti cfr. H. Delbruck, History of the Art of War, Lincoln: University of Nebraska Press, 1990, 4 voll., IV, pp.101-116, 294-310. Putroppo quest’immane opera (oltre 2000 pagine), fondamentale per comprendere lo sviluppo dell’arte militare nel corso dei secoli, dai tempi dell’esercito oplita sino all’epoca immediatamente precedente la prima guerra mondiale, non è stata ancora tradotta in italiano dall’originale tedesco.
(151) H. Turtledove, The Guns of South, 1998.

APPENDICE 1
Testo della lettera inviata da P.G.T. Beauregard a J.E. Johnston il 15 maggio 1863, OR vol. 23, pt.2, pp. 836-37.

"Sono sicuro che apprezzerete i motivi che mi inducono ad offrire alla vostra attenzione le seguenti opinioni generali sulla campagna estiva in arrivo, le quali , ove coincidessero con le vostre, potrebbero, se già non è stato fatto, essere presentate da voi al Dipartimento della Guerra. Senza dubbio alcuno, il modo più sicuro per sollevare lo Stato del Mississippi e la valle del Mississippi dalla presenza dell'esercito del nemico è [quello di] assumere improvvisamente e con coraggio l'offensiva nel Tennessee e Kentucky,a tal fine tutte le forze disponibili da altri comandi , da tenere ora rigorosamente sulla difensiva, dovrebbero essere concentrate sotto il vostro comando. Le forze attualmente nel Tennessee essendo state così rinforzate da 25.000 o 30.000 uomini nel punto strategico più favorevole per [prendere] l'offensiva, Rosecrans potrebbe essere improvvisamente attaccato e [in tal modo] sarebbe o totalmente distrutto oppure il resto delle sue forze sarebbe rapidamente spinto al di là dell’Ohio. Una forza di almeno 10.000 uomini nel Tennessee e 20.000 nel Kentucky allora verrebbe senza dubbio reclutata, e, con circa 20.000 dei rinforzi ricevuti dalla Virginia e altrove, potrebbe essere qui lasciata per tenere questi due Stati . Il resto dell'esercito , diciamo circa 60.000 o 70.000 uomini, dovrebbero attraversare i fiumi Cumberland e Tennessee fino a Fort Pillow presso Columbus, in modo da avere il comando [del corso] del fiume Mississippi , e perciò tagliare le comunicazioni di Grant con il nord. Quest'ultimo, qualora egli avesse ritardato così a lungo il suo ritiro a nord di questi due punti, si ritroverebbe allora in una condizione molto critica, vale a dire, costretto a combattere per aprirsi la  strada contro un esercito vittorioso , pari alla sua forza, su di un campo di battaglia scelto da quest’ultimo, in posizione tale da essere rinforzato nell'evenienza dalle forze lasciate di presidio nel Kentucky, e il risultato finale non potrebbe essere in dubbio nemmeno per un istante . Sta di fatto ovviamente [che], il vantaggio sarebbe costituito dall’abbassamento del livello dell’acqua nei fiumi Cumberland e Tennessee in modo da ostruire completamente la navigazione e fortificare fortemente le loro sponde nel punto dove sono più vicine, noto come il "collo" [di bottiglia]. Subito dopo la distruzione dell'esercito di Grant, forze sufficienti potrebbero essere lanciate dall'esercito [che si trova] nel Mississippi, in Louisiana in aiuto a Kirby Smith, e nel Missouri per assistere Price, o dal Kentucky in Virginia per rinforzare le truppe rimaste colà , [qualora queste] dovessero essere pressate con forza; ma una tal cosa, non è da temere, considerando la terribile lezione che il nemico ha appena subito a Chancellorsville , e che gran parte del suo esercito deve essere sciolto nel corso del presente mese, per essere rimpiazzato, se non proprio completamente, da reclute yankee inesperte. Nel frattempo un numero sufficiente di arieti siluranti potrebbe essere costruito in Inghilterra, e la navigazione sul Mississippi ristabilita rendendo perciò fattibile per noi la riconquista di New Orleans e la cattura dell’esercito di Banks.
"

APPENDICE 2.
Principali battaglie combattute sui fronti Est e Ovest tra il giugno 1862 e il luglio 1863 con relative perdite (morti, feriti, dispersi e prigionieri).

N.B. Tutti i dati sono tratti da E.B. Long, Civil War Day by Day, New York, 1979, pp. 235-366, eccezion fatta per i dati relativi a Gettysburg per i quali si veda J.D.Petruzzi & S. Stanley, The Gettysburg Campaign in Numbers and Losses, Savas Beatie, 2013.

Stefano Bianchi

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